Infortuni sul lavoro e responsabilità civile: Sentenza 9166/2017
Un excursus su esonero e danno differenziale. Non esiste probabilmente tema più classico della nostra disciplina di quello del rapporto fra tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e responsabilità civile.
Si tratta, infatti, di un tema originario, che si pone in senso proprio alle origini della legge nella quale siamo soliti individuare, nel nostro Paese, l’inizio della storia del diritto della previdenza sociale modernamente inteso. Un excursus introduttivo sulle questioni più rilevanti del tormentato rapporto tra regole generali di responsabilità e disciplina assicurativa degli infortuni sul lavoro non può, dunque, non tener conto della grande complessità sul piano storico-ricostruttivo di questa lunga vicenda, che prende origine, appunto, dalla legge istitutiva n. 80 del 1898. Solo un’adeguata consapevolezza della complessità storica delle tante questioni che ci appaiono ancor oggi aperte e irrisolte può, infatti, consentire una riflessione metodologicamente avveduta e quindi – come è necessario nell’ottica del giurista pratico – anche il tentativo di offrire appropriate soluzioni interpretative e applicative. Il tema dei rapporti tra responsabilità civile, infortuni sul lavoro e malattie professionali è effettivamente uno dei più complessi sul piano storico-dogmatico. Su di esso si è accumulata una letteratura di straordinaria rilevanza, essendosi sul tema come noto cimentati alcuni dei massimi protagonisti della cultura giuridica del Novecento italiano (ci basti ricordare gli studi seminali di Francesco Carnelutti), onde il ritorno ai classici costituisce, nel nostro campo, un esercizio più che mai necessario. Ogni discussione sul nostro tema esige, in questa prospettiva, di cimentarsi sui due classici aspetti di questa problematica: da un lato, sulla questione dei presupposti e dei limiti dell’esonero (parziale) del datore di lavoro «assicurante» dalla responsabilità civile, quale sancito dal primo comma dell’art. 10 del d.P.R. 1124 del 1965 in termini lessicalmente non dissimili da quanto disponeva la l. 80 del 1898; dall’altro, sulla questione dei criteri di determinazione del «danno differenziale». Su entrambe le questioni – a dispetto dell’apparente fissità di un dato normativo che ha finito per ossificarsi, almeno nella sua disposizione di riferimento – si è come ben noto registrata, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta dello scorso secolo, una straordinaria evoluzione giurisprudenziale.
Il tema è così classico che esime dal fornire indicazioni bibliografiche che non riguardino, oltre a pochi autori classici, la più recente attualità giurisprudenziale o normativa. Per un riepilogo generale delle questioni che verranno affrontate in questo contributo valga ad ogni modo il rinvio a S. GIUBBONI, A. ROSSI, Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno, Milano, 2012. 2 V. ora U. ROMAGNOLI, Giuristi del lavoro nel Novecento italiano, che ha in pari tempo riguardato – con intrecci inevitabili tra i due aspetti – sia il profilo dell’an della responsabilità risarcitoria datoriale, sia quello del quantum.
Non è un caso che i due profili tornino ad essere intrecciati, condizionandosi vicendevolmente, nella elaborata (ancorché, come diremo, non del tutto appagante e condivisibile) motivazione della pronuncia – la 9166 del 2017 – con cui la Suprema Corte ha di recente fatto in qualche modo il punto sulla nostra complessa problematica, delineando, per così dire, lo «stato dell’arte» in materia. È indubbiamente difficile sintetizzare con formule semplici una tale complessa evoluzione: volendo tuttavia azzardare almeno un’ipotesi ricostruttiva di questa vicenda, e segnatamente degli intrecci inevitabili tra il profilo dell’an e quello del quantum, si è tentati di dire che, almeno tendenzialmente, a fasi di restrizione dei presupposti di attivazione della responsabilità risarcitoria del datore (caratterizzati, dunque, da una lettura rigorosa dell’esonero come «regola» dello speciale sottosistema governato dal t.u. del 1965) fa da contraltare una certa larghezza nella determinazione della misura del danno differenziale riservato al risarcimento della vittima dell’infortunio sul lavoro o della malattia professionale; e viceversa. Con la evocata sentenza n. 9166 del 2017 della Corte di cassazione ci troveremmo (nuovamente), secondo taluni, in una fase di tendenziale restrizione sull’an, con una rivitalizzazione dell’esonero come regola speciale del «diritto secondo» dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni (per usare la nota espressione di Carlo Castronovo), apparentemente controbilanciata da una significativa espansione sul piano del quantum del danno differenziale risarcibile in favore della vittima dell’infortunio o della malattia professionale.
La sentenza n. 9166 del 2017 della Corte di cassazione.
Fermo tale principio, ciò che semmai andrebbe meglio messo a fuoco – dinanzi ad una giurisprudenza ondivaga e non sempre chiara sul punto – è in quali esatti termini il lavoratore debba allegare e provare il nesso causale tra il danno e la prestazione lavorativa: se in particolare egli debba individuare con un apprezzabile grado di precisione la misura di sicurezza rimasta inadempiuta, specie ove questa non corrisponda a un obbligo puntualmente tipizzato dalla legge, ma derivi, secondo la formulazione aperta dell’art. 2087 c.c., dalla particolarità del lavoro, della esperienza o della tecnica. Solo quando il lavoratore avrà assolto un siffatto onere deduttivo e probatorio il datore di lavoro sarà tenuto a provare che il danno è dipeso da causa non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure necessarie ad evitare il danno. Neanche la citata sentenza n. 9166 del 2017 della Corte di cassazione dà a questo riguardo indicazioni del tutto chiare e appaganti, ed in alcuni passaggi – invero piuttosto ambigui – è sembrato anzi ad alcuni commentatori che il Supremo Collegio volesse rimettere in discussione i consolidati approdi interpretativi che ho sin qui sommariamente ricostruito. Alcuni hanno infatti colto, in taluni passaggi della motivazione, una rimeditazione di tali orientamenti nel senso di una «rivitalizzazione» della regola dell’esonero (è questa, in particolare, l’opinione espressa, seppure da prospettive per certi versi opposte, sia da Riccardo Diamanti che da Andrea Rossi). Sembra invece di poter leggere quei passi della motivazione in perfetta linea di continuità con la richiamata giurisprudenza sull’art. 10 t.u. Si coglie certo un ripensamento di tale giurisprudenza nel passo in cui la Corte ribadisce che, alla luce dell’art. 10 t.u., «l’esonero cade nell’ipotesi in cui l’infortunio o la malattia professionale sia conseguenza di una condotta datoriale integrante gli estremi di una fattispecie di fatto di reato perseguibile d’ufficio». E lo stesso dicasi per il passo in cui la Corte statuisce che, «ove siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, attuato il giudizio di sussunzione e di qualificazione giuridica competente al giudice, questi potrà accertare in via incidentale autonoma la sussistenza dell’illecito penale e, in caso di esito positivo del giudizio circa tale accertamento, procedere alla determinazione dell’eventuale danno differenziale». Non sembra di poter ravvisare – ancorché non si neghi che la motivazione possa ambiguamente prestarsi a letture di diverso segno – un superamento degli indirizzi sopra richiamati. Del resto, in altro passo della motivazione, che precede peraltro quello da ultimo citato, la Corte precisa che, «di fronte alla domanda del lavoratore, il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, innanzi tutto dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive e oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal d.P.R. n. 1124 del 1965». Per poi ancora statuire che «la richiesta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dall’inadempimento datoriale, è idonea a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo legale anche ex officio, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta al punto da essere rigettata la domanda in cui si richieda l’intero danno». Non è un caso che la Corte parli di accertamento dell’inadempimento, giacché questo, come si è già spiegato, onde poter verificare nelle circostanze allegate dal lavoratore la ricorrenza di un fatto astrattamente integrante gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, andrà operato negli stessi termini in cui l’art. 1218 c.c. articola il giudizio di responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione (nella specie, di protezione e sicurezza, ex art. 2087 c.c.). Sicché non pare che la Suprema Corte si sia allontanata dal principio di diritto per cui, ai fini del superamento dell’esonero, la verifica della ricorrenza di un fatto di reato perseguibile d’ufficio, che è richiesta dell’art. 10 in deroga alle regole generali, debba essere comunque condotta dal giudice del lavoro avvalendosi dei comuni criteri di accertamento della responsabilità contrattuale del debitore dell’obbligo di sicurezza, i.e. nei termini generali di cui all’art. 1218 c.c. In definitiva, si conferma che la deroga deve essere interpretata restrittivamente, come insegna tutta la storia giurisprudenziale dell’art. 10 t.u., onde, di fronte all’allegazione, da parte del lavoratore, di circostanze di fatto integranti astrattamente gli estremi di un reato (tipicamente di lesioni colpose, gravi o gravissime) perseguibili d’ufficio, il datore di lavoro dovrà essere condannato al risarcimento del danno differenziale ove non dimostri che il danno è dipeso da causa non imputabile, ovvero di aver pienamente adempiuto al suo obbligo di sicurezza.
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