Malasanità: in cosa consiste? che cosa è?
La malasanità è una carenza generica della prestazione dei servizi professionali rispetto alle loro capacità che causa un danno al soggetto beneficiario della prestazione.
In Italia, il termine malasanità è usato per indicare diversi fenomeni, tra cui:
- l'errore medico (es. amputazione della gamba sbagliata, diagnosi errata): gli errori dei medici nella gestione del paziente, sia nell'esecuzione della prestazione, sia nella diagnosi di una certa patologia
- le cure o pratiche superflue, inutili e dannose (es. interventi chirurgici non necessari, farmaci somministrati senza giustificazione): il ricorso a cure o a trattamenti superflui o inutili, come la somministrazione ingiustificata di farmaci o l'esecuzione di un'operazione chirurgica non necessaria
- la cattiva gestione della sanità pubblica: la cattiva gestione della sanità pubblica, in particolar modo le lunghe liste d'attesa per accedere alle prestazioni offerte dal servizio sanitario nazionale.
- corruzione, speculazione e furti (es. macchinari acquistati e non usati, personale assente senza giustificazione)
Responsabilità medica e malasanità
La responsabilità medica (malasanità) è la responsabilità professionale di chi esercita un'attività sanitaria per i danni derivati al paziente da errori, omissioni o in violazione degli obblighi inerenti all'attività stessa.
Nesso causale
Si ha responsabilità medica e si parla di malasanità quando sussiste un nesso causale tra la lesione alla salute psicofisica del paziente e la condotta dell'operatore sanitario in concomitanza o meno con le inefficienze e carenze di una struttura sanitaria.
Da una tale definizione, solo apparentemente generica in vista degli approfondimenti che seguiranno, emerge primariamente la centralità del delicato rapporto tra l'esercizio del diritto alla salute da parte del cittadino e l'espressione della professione medico-sanitaria in tutte le sue possibili declinazioni: che si svolga autonomamente o in equipe, che intervenga su una determinata patologia o sulla sua possibile insorgenza, il fine ultimo dell'attività in esame coincide con gli obiettivi del processo di guarigione dalla malattia.
Occorre sottolineare pertanto che il concetto di errore medico e malasanità si riferisce compiutamente all'azione di un sistema composito in cui il soggetto è destinatario di prestazioni mediche di ogni tipo (diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, assistenziali, ecc.) svolte da medici e personale con diversificate qualificazioni, quali infermieri, assistenti sanitari, tecnici di radiologia medica, tecnici di riabilitazione, ecc.
La casistica degli interventi medico-sanitari è comprensibilmente ampia perché certamente indirizzata anche a porre in essere tutte quelle metodiche finalizzate ad esempio a lenire la condizione di un malato incurabile o, per ipotesi meno infauste, a prevenire l'insorgenza di possibili patologie con la direzione e diffusione di pratiche di natura sanitaria dimostratesi efficaci nell'esperienza e osservazione quotidiana.
Quando tuttavia gli effetti conseguiti non sono quelli sperati è possibile che ai sanitari possano essere attribuiti, secondo le ipotesi più frequenti, errori diagnostici, terapeutici o da omessa vigilanza e conseguentemente la sussistenza di una responsabilità penale o civile per l'aggravamento della situazione del paziente o addirittura per la sua morte.
Alla luce degli ultimi interventi legislativi di riforma, a cominciare dal D.L. n. 158/2012, convertito con modificazioni nella L. n. 189/2012 (la cd. legge Balduzzi) fino alla recentissima L. n. 24/2017 (legge Gelli-Bianco), la disamina non può prescindere dalla diversa considerazione della relazione tra medico e paziente, peraltro già condivisa dalla precedente evoluzione giurisprudenziale e concentrata sull'importanza della volontà e autonomia del paziente, non più in totale balia delle volontà del professionista. Più precisamente in materia di consenso informato e di diritto alle cure già l’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 prescriveva che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il prio consenso.
La necessaria acquisizione del consenso informato e il diritto del paziente all'autodeterminazione delle scelte terapeutiche pertanto richiede ora che l'azione del sanitario possa dirsi legittima in relazione non solo alla congruità degli interventi curativi effettuati, ma anche al corretto assolvimento degli obblighi informativi, in mancanza del quale si profila un particolare aspetto della responsabilità medica.
Gli elementi della responsabilità medica / malasanità in via generale
Prima di trattare i vari profili, oggetto delle recenti riforme in materia, una prima evocazione del concetto di "malpractice" è opportuna per accogliere in via generale gli elementi che concorrono a determinare una non corretta pratica sanitaria con i suoi possibili effetti; risulta quindi evidente nella responsabilità medica, forse più che per ogni altra professione intellettuale, l'incidenza della colpa e del nesso causale tra la condotta posta in essere e l'evento dannoso.
La colpa
Il concetto di responsabilità attiene dunque all'obbligo di rispondere delle conseguenze derivanti dall'illecita condotta, commissiva od omissiva che sia, certamente posta in essere in violazione di una norma.
A seconda dei diversi ambiti operativi della norma stessa può trattarsi di
- una responsabilità morale, in cui è facile ravvisare la sospensione di principi etici, non meno visibili ma relegati ad un interiore senso valutativo,
- una responsabilità amministrativo-disciplinare, quando sono violati obblighi relativi al servizio prestato, ai doveri d'ufficio o a regole deontologiche con la conseguente comminatoria di sanzioni dell'ente di appartenenza o dell'Ordine Professionale e infine
- una responsabilità giuridica per la violazione di una norma penale o civile.
Quando dalla propria condotta colposa deriva una lesione personale o la morte della persona assistita il medico (o il sanitario in genere) è chiamato a rispondere del suo comportamento professionale sulla base del concetto di colpa come definito dall'art. 43 del codice penale secondo cui deve ritenersi colposo (o contro l'intenzione) un evento che, anche se previsto, non è voluto dall'agente ma che si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia oppure per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La colpa è quindi generica se sussiste
- la negligenza, ossia superficialità, trascuratezza, disattenzione. Esempi tipici possono riguardare il medico che prescrive un farmaco al posto di un altro o del chirurgo che non si accorge della mancata rimozione di corpi estranei in un campo operatorio;
- l'imprudenza, che può riferirsi alla condotta avventata o temeraria del medico che, pur consapevole dei rischi per il paziente, decide comunque di procedere con una determinata pratica;
- infine l'imperizia, che coincide con la scarsa preparazione professionale per incapacità proprie, insufficienti conoscenze tecniche o inesperienza specifica.
La colpa specifica invece consiste nella violazione di norme che il medico non poteva ignorare e che era tenuto ad osservare quali espressioni di legge o di un'autorità pubblica/gerarchica, disciplinanti specifiche attività o il corretto svolgimento delle procedure sanitarie.
Come accennato, l'errore del medico può essere compiuto nella fase diagnostica, in quella prognostica e nella fase terapeutica.
L'errore diagnostico si realizza nel non corretto inquadramento diagnostico della patologia, a cominciare ad esempio dalla imprecisa raccolta dei dati anamnestici, laddove invece doveva essere esattamente eseguita e valorizzata per il completamento del quadro clinico (il paziente è allergico a varie sostanze ma il medico dimentica di annotarle o specificarle, predisponendo superficialmente proprio una terapia sulla base di quei principi attivi).
Altro errore diagnostico può realizzarsi nella sottostima o addirittura nel mancato rilievo di una certa allarmante sintomatologia, anche se grazie agli esami strumentali e di laboratorio a fini diagnostici e ai percorsi codificati in veri e propri protocolli, l'ipotesi di una diagnosi errata assume oggi una maggiore gravità. Un aspetto decisamente affine e non meno grave è quello del ritardo diagnostico che procrastina a danno del paziente l'esecuzione di necessarie e indispensabili terapie.
L'errore prognostico deriva invece da un giudizio di previsione sul decorso e soprattutto sull'esito di un determinato quadro clinico che però si rivela sbagliato magari perchè correlato ad errore diagnostico, mentre l'errore in fase terapeutica attiene al momento della scelta del trattamento sanitario o a quello della sua esecuzione. Può verificarsi comunque l'ipotesi in cui, pur in presenza di una corretta diagnosi e di un percorso terapeutico congruamente definito, si sbagli l'esecuzione dell'intervento chirurgico per imperizia o negligenza.
Il nesso di causalità
E' opportuno anticipare che l'accertamento di una condotta colposa o imperita non è autonomamente sufficiente a ricondurre alcuna responsabilità in capo al sanitario. Il passo successivo richiede che venga individuato un preciso legame, un nesso eziologico tra errore commesso e danno subito dal paziente, perché il secondo possa qualificarsi come diretta conseguenza del primo.
Su un piano strettamente tecnico la causalità tra condotta ed evento non è sempre pacificamente lineare per la complessità dei fenomeni clinici, spesso condizionati da variabilità soggettive o da un decorso atipico, senza contare che determinate patologie, pur opportunamente trattate, possono comunque presentare complicanze proprie e non dipendenti dalla condotta medica. E' il caso ad esempio delle terapie dai possibili effetti collaterali “iatrogeni” che sono direttamente collegati alla terapia effettuata, ma non riconducibili ad errore medico.
Difficile, se non addirittura arduo, è spesso per il medico-legale pronunciarsi in termini di certezza assoluta; opportuna risulterà in tali situazioni l'applicazione del criterio statistico-probabilistico a cui comunque si richiede che, soprattutto in materia di colpa omissiva, consenta di indicare il legame tra condotta ed evento con un grado di probabilità molto elevato, se non assai prossimo alla certezza.
La responsabilità civile del medico: contrattuale o extracontrattuale?
Secondo la sua distinzione classica la responsabilità civile può essere extracontrattuale per fatto illecito (qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno, art. 2043 c.c.) o contrattuale, quando a norma dell'art. 1218 c.c. la mancata o inesatta prestazione dovuta origina il risarcimento del danno in assenza di una prova a connotare l'impossibilità della prestazione per una causa al soggetto agente non imputabile.
Sussiste la responsabilità contrattuale nei casi di preesistenza di un rapporto di tipo obbligatorio, costituito ad esempio per il medico da un contratto di lavoro subordinato oppure da un contratto d’opera intellettuale.
La responsabilità extracontrattuale invece esclude il presupposto della contrattualità con il soggetto assistito: l'esempio classico è quello del medico che interviene su un paziente in stato di incoscienza con il quale non ha certo potuto stipulare nell'imminenza dell'intervento alcun tipo di contratto, sorgendo in questi casi l'illecito dalla violazione del principio di carattere generale del “neminem laedere”.
La differenza tra i due titoli di responsabilità risiede anche nell'applicazione di regole diverse per gli aspetti dell'onere della prova, della prescrizione dell'azione, ecc.
In merito occorre aggiungere che la professione medica rientra nella categoria codicistica delle professioni intellettuali con la connaturata prestazione che è d'opera intellettuale, regolata dall'art. 2230 e ss. c.c. e svolta anche secondo forme organizzative storicamente ispirate dall'affermazione di principi solidaristici, quindi esercenti una funzione pubblica.
In via generale la prestazione medica contrattualmente precostituita consiste in un'obbligazione di mezzi e non di risultato, per la quale il medico non può garantire la guarigione, impegnandosi piuttosto ad utilizzare i mezzi scientifici più idonei per il raggiungimento del risultato favorevole al paziente.
Il fallimento di una terapia, un esito infausto della malattia sono effetti che non è possibile ritenere automaticamente consequenziali alla sua attività in mancanza della prova di un nesso che causalmente o concausalmente ricolleghi queste o altre nefaste circostanze ad una condotta professionale inadempiente.
Così, mentre nella responsabilità contrattuale l'onere della prova ricade, come accennato, sul debitore che è tenuto a dimostrare la riconducibilità dell'inadempienza ad una causa a lui non imputabile, nella responsabilità extracontrattuale è il danneggiato che deve provare l'esistenza dell’illecito, della condotta colpevole, dell’evento di danno e del nesso causale. Occorre precisare tuttavia che in caso di prestazione medico-chirurgica opera sempre di regola, accanto alla responsabilità contrattuale, anche quella extracontrattuale per il rispetto dei valori tutelati della salute e della vita a prescindere da precostituiti obblighi contrattuali.
A parte la varietà dei comportamenti medici commissivi anche un'omissione o un ritardo diagnostico-terapeutico può provocare un danno al paziente con conseguenze che una tempestiva esecuzione avrebbe evitato o reso meno gravi. In tali ultime ipotesi l’accertamento del nesso causale appare più complicato, perché occorre specularmente stabilire quale incidenza il trattamento doveroso omesso o ritardato avrebbe avuto nel preservare la salute del paziente, in considerazione di componenti imprescindibili, quali ad esempio la variabilità di decorso di una certa patologia che, per le sue caratteristiche, potrebbe comunque resistere ad una adeguata e tempestiva attività medica.
Il giudizio sul nesso causale richiede che si debba fare riferimento a consolidate leggi scientifiche e a criteri di attendibile probabilità statistica, da rapportare al caso concreto per stabilire se la condotta omessa, se correttamente compiuta, avrebbe evitato l’evento dannoso.
Una penale responsabilità del medico per comportamenti omissivi è pertanto da escludere quando non sussistano, siano contraddittori o incerti gli elementi probatori e ricorra invece un ragionevole dubbio che, in base all'evidenza disponibile, risulti fondato su specifiche risultanze.
Malasanità e Risarcimendo del danno
Chiunque creda di essere stato danneggiato a causa di un errore sanitario, allo scopo di ottenere il risarcimento del danno dovrà intraprendere una causa per l’accertamento della responsabilità medica.
Tuttavia, prima di procedere con l’azione giudiziaria nei confronti dell’esercente la professione sanitaria o della struttura sanitaria (pubblica o privata) che risponde delle condotte colpose o dolose dei medici di cui si avvale, è bene che svolga alcune attività preliminari ai fini di una buona impostazione o del buon esito del processo (ovvero per capire se fosse più saggio rinunciare alla introduzione dell’azione stessa) e che tenga già inizialmente presente che, a seguito della Legge n. 24 dell’8 Marzo 2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco) il primo potrà rispondere per responsabilità di natura extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.), salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente, mentre la seconda per responsabilità contrattuale (ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.) (si vedano i commi 1 e 3, dell’art. 7, L. n. 24/2017) con tutto quanto quello che la differenza comporta, anche e soprattutto sul piano probatorio.
Consulenza di parte
Il primo passo da compiere è rappresentato dalla consulenza di parte. Preliminarmente, dunque, il paziente che ritenga che il peggioramento delle proprie condizioni di salute sia conseguenza immediata e diretta di un errore medico dovrà, innanzitutto, raccogliere tutta la documentazione medica in suo possesso, o richiederne copia alla struttura (rectius alla direzione sanitaria di essa), e relativa al percorso diagnostico-prognostico-terapeutico seguito e poi sottoporre la questione ad un medico legale con competenze specialistiche nel campo della medicina in cui il futuro (ed eventuale) attore si ritenga danneggiato, con l’assistenza di un legale. Il parere – redatto in una relazione – del medico legale è necessario, trattandosi di questioni estremamente tecniche, per meglio comprendere se i dubbi del paziente possano considerarsi fondati o meno.
In merito alla figura del consulente, anche il Codice Deontologico dei Medici, all’art. 64, ammonisce che “nell’espletamento dei compiti e delle funzioni di natura medico legale, il medico deve essere consapevole delle gravi implicazioni penali, civili, amministrative e assicurative che tali compiti e funzioni possono comportare e deve procedere, sul piano tecnico, in modo da soddisfare le esigenze giuridiche attinenti al caso in esame nel rispetto della verità scientifica, dei diritti della persona e delle norme del presente Codice di Deontologia Medica”. Si sottolinei poi, infatti, che anche sull’operato del consulente di parte grava una obbligazione di condotta che implica l’opportunità di prestare la propria opera di natura intellettuale, non già per raggiungere il risultato sperato o comunque inteso dal committente, ma per cercare comunque la verità, sia pur partendo da punti di vista o posizioni ovviamente diversificate rispetto a quelle del Consulente Tecnico d’Ufficio o di controparte. Ne scaturisce pertanto la necessità di un atteggiamento obiettivo, indipendente dalla posizione di parte comunque acquisita, che prenda le distanze da atteggiamenti di accanimento “accusatorio” fazioso o ad oltranza nel tentativo di avvallare o giustificare a tutti i costi le richieste, anche solo supposte, della parte committente (qualunque essa sia); ben consci che tali ultimi atteggiamenti possono essere cause di ripercussioni in ambito penale e civile sia dalla stessa parte committente che dalla parte ingiustamente accusata ai sensi degli artt. 185 c.p., 373 c.p., 380 c.p., nonché 2043 c.c. (risarcimento per fatto illecito), con gli ovvi risvolti di cui all’art. 96 c.p.c. ove si possa documentare che tutto il costrutto attoreo sia fondato su di una iniziale consulenza di parte marchiata da gravi errori concettuali o metodologici ovvero fortemente faziosa ai limiti del temerario.
Quando dalla perizia – diretta quindi a valutare la reale sussistenza di un errore che giustifichi una causa per responsabilità medica – sarà possibile concludere circa la presenza di uno sbaglio medico, e quindi nella stessa sarà anche certamente stimato il danno, il danneggiato o, per lui, il suo legale potrà inviare una richiesta (diffida) di risarcimento del danno all’Ente sanitario ovvero al professionista i quali, una volta ricevuta la richiesta, apriranno il sinistro presso la compagnia assicuratrice che li copre per la responsabilità civile verso i terzi. Si ricordi qui l’obbligo di assicurazione in capo ad entrambi i soggetti (nonché quello di pubblicazione in capo al primo) di cui all’art. 10 L. 24/2017. Non si trascuri inoltre la previsione contenuta nell’art. 12 della stessa Legge secondo cui la richiesta può essere rivolta dal danneggiato direttamente alla compagnia assicurativa (c.d. azione diretta).
Accordo stragiudiziale
Il danneggiato, quindi, seguirà la pratica di liquidazione che normalmente prevede una visita medico-legale di riscontro presso un professionista incaricato dalla compagnia. Se la visita di riscontro conferma la presenza di un errore medico, le parti potranno tentare di chiudere la vertenza attraverso un accordo sull’entità del risarcimento.
Se invece tale visita escluderà la presenza di un errore, molto probabilmente la compagnia assicuratrice non si renderà disponibile per una offerta risarcitoria. Non è assolutamente da escludere, infatti, che la questione giunga a una risoluzione bonaria, con il raggiungimento di un accordo stragiudiziale tra le parti.
Cenni sulla nuova legge sulla responsabilità sanitaria: la riforma Gelli-Bianco
Il 1° aprile 2017 è entrata in vigore la legge 8 marzo 2017, n. 24, recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie" che disciplina fondamentali aspetti del ruolo e delle funzioni del medico, principalmente con l’intento di prevenire il rischio clinico, ridurre il contenzioso sulla responsabilità medica, arginare la fuga delle assicurazioni dal settore sanitario e contenere gli ingenti costi della cosiddetta medicina difensiva.
All'art. 1 è subito indicata la sicurezza delle cure come parte costitutiva del diritto alla salute, perseguita non solo nell’interesse dell’individuo ma anche dell'intera collettività, quindi dotata di dignità normativa in relazione alla tutela individuale, costituzionalmente riconosciuta dall'art. 32 Cost., e al valore dell'erogazione delle prestazioni sanitarie come obiettivo prioritario della sanità pubblica.
Concorrono a tali obiettivi, unitariamente considerati, le attività di prevenzione del rischio sanitario (cd. clinical risk management), l'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative, nonché il personale delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private, compresi i liberi professionisti convenzionati, in vista di un’azione coordinata e organizzata di tutti gli operatori del sistema sanitario.
L’art. 4 poi sancisce l’obbligo di trasparenza per tutte le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private, stabilendo l'obbligo per la direzione sanitaria di fornire, entro i sette giorni successivi alla richiesta di accesso da parte degli interessati, la documentazione sanitaria del paziente.
L’art. 5, infine, conferma l'evoluzione della codificazione delle linee guida elaborate dalla comunità scientifica, fondamentali per la valutazione in sede penale della condotta del sanitario. Nell'esecuzione delle prestazioni gli operatori medici devono seguire le raccomandazioni previste dalle linee guida o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, pubblicate in un apposito elenco istituito e regolato con Decreto ministeriale e inserito nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), da aggiornarsi ogni due anni.
La responsabilità penale del medico secondo la legge Gelli-Bianco
Indubbiamente una delle novità più importanti della L. n. 24/2017 è data dall'art. 6 che riforma la responsabilità penale del medico. Cinque anni prima la legge Balduzzi aveva previsto, per la prima volta, la non punibilità del fatto colposo del medico in presenza del rispetto delle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e della colpa lieve (art. 3).
Proprio a tale ultimo proposito, in particolare per le difficoltà sull'interpretazione del concetto di colpa lieve nell'ambito penale, nemmeno una copiosa giurisprudenza di legittimità ha potuto raggiungere un orientamento univoco. La riforma Gelli-Bianco interviene ad abrogare l’art. 3, legge Balduzzi per inserire l'art. 590-sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario) con cui è eliminato il riferimento alla colpa lieve in precedenza richiamato, limitando la scriminante ai casi di colpa per imperizia. Negligenza e imprudenza determinano in ogni caso la punibilità del sanitario anche se la sua condotta era in linea con le indicazioni guida, lasciando il tema della colpa medica privo di certezze interpretative. E' bene precisare peraltro che la norma in esame si riferisce solo ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose, rimanendo esclusi dalla sua applicazione gli altri reati, quali ad esempio l'interruzione colposa di gravidanza (art. 19 l. 194/78).
La natura della responsabilità civile del medico - malasanità secondo la legge Gelli-Bianco
In tema di responsabilità civile l’art. 7 introduce una diversa qualificazione delle responsabilità della struttura sanitaria e del sanitario, ritenendo di natura contrattuale la prima ed extracontrattuale la seconda, salvo l'obbligazione contrattuale assunta direttamente dal medico con il paziente.
La novità è stata indicata come d'innegabile vantaggio per la categoria: nell’azione promossa per responsabilità contrattuale il danneggiato dovrà provare ad esempio le fasi del ricovero e del trattamento e l’inadempimento rappresentato dalla lesione subita, mentre la struttura dovrà dimostrare il corretto o impossibile adempimento della prestazione.
Diversamente ai sensi dell'art. 2043 c.c. l’onere della prova riguarda l’esistenza del danno, il nesso di causalità con la condotta e la colpa (o dolo) dell’agente. A ciò si aggiunge il minore termine di prescrizione dell’azione extracontrattuale rispetto a quello decennale previsto per l'azione contrattuale.
Vi è da dire che prima della riforma la giurisprudenza prevalente6 aveva compreso anche il medico nella responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, presente un contatto sociale qualificato tra paziente e professionista, obbligato quest'ultimo, al di là del neminem laedere, da specifiche disposizioni di legge a tutelare la salute del paziente e ad assumere precisi obblighi di protezione. Dopo l'entrata in vigore della legge Balduzzi la giurisprudenza di merito aveva sostenuto per tale particolare fisionomia del soggetto agente una responsabilità extracontrattuale e così le vigenti disposizioni ora si limitano a prevedere che, esclusi i casi in cui vi sia un rapporto contrattuale tra paziente e professionista, sull'art. 2043 c.c. si basi il criterio attributivo della responsabilità civile sanitaria.
La determinazione del danno
Nella determinazione del risarcimento del danno il giudice deve tenere conto della condotta medica ai sensi dell’art. 5 e dell’art. 590 sexies c.p., come introdotto dal precedente art.6.
Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n.209/2005), integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo. In realtà il criterio della condotta rispettosa delle linee guida e delle buone pratiche è obiettivamente rilevante per l'accertamento della colpa (an debeatur) e non è precisato come possa essere applicato anche per la quantificazione del danno (quantum debeatur). Sembrerebbe potersi intendere che l’accertamento della colpa lieve o, all’opposto, di quella grave sia idoneo a giustificare una diminuzione ovvero correlativamente un aumento del risarcimento.
Senza ulteriori specificazioni sulla sua natura patrimoniale o non, recenti interpretazioni hanno ritenuto possibile attribuire al medico attento alle linee guida, ma comunque in colpa, una diminuzione sul risarcimento in base al criterio equitativo di liquidazione previsto dagli artt. 2056 e 1226 c.c.
Diversamente si potrebbe recepire un riferimento solo diretto al danno non patrimoniale, nella sua componente morale soggettiva del cd. patema d'animo, con esclusione del danno biologico nella parte in cui deve ormai essere risarcito secondo criteri tabellari vincolanti (secondo il comma 4, art. 7 , l. 24/2017).
Allo stesso modo anche il danno patrimoniale non potrebbe essere graduato in relazione alla colpa dell’autore, poiché è evidente come la perdita economica subita dal paziente non possa oscillare a seconda della causazione del danno con colpa lieve o grave. Questo tuttavia anche se, come già indicato, un'interpretazione letterale della norma non autorizzerebbe l'esclusione dal suo ambito di una qualche categoria di danno e nemmeno un'eventuale ipotesi di aumento del risarcimento nel caso di mancato rispetto delle linee guida e/o di colpa grave.9
Gli aspetti processuali: la deflazione del contenzioso
Altro obiettivo della riforma Gelli-Bianco è dato dalla riduzione del contenzioso da responsabilità sanitaria. L'art. 8 prevede a tal fine l’introduzione di un tentativo obbligatorio di conciliazione, condizione di procedibilità della domanda risarcitoria, secondo le forme previste dall'art. 696-bis c.p.c. per l’espletamento della consulenza tecnica preventiva o, in alternativa, del procedimento di mediazione (art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010), esclusa la negoziazione assistita (art.3, L. n. 162/2014).
Se la conciliazione fallisce o il procedimento non è concluso entro il termine perentorio di 6 mesi, la domanda, da depositarsi entro i successivi 90 giorni, può essere proposta nelle forme del procedimento sommario di cognizione.
E' previsto per tutte le parti l'obbligo di partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva o alla mediazione: anche le imprese di assicurazione non possono arbitrariamente sottrarsi a tale incombenza, avendo peraltro l'obbligo di formulare un'offerta di risarcimento o giustificarne l'eventuale mancanza a pena di richiesta di intervento all'IVASS. Il giudice peraltro, con la sentenza condanna le parti non intervenute al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte comparsa; in sede di mediazione invece è prevista una duplice sanzione per le parti non intervenute e la possibilità che la mancata partecipazione assurga ad argomento di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c.
La scelta procedurale tra mediazione e ATP
Considerando le caratteristiche delle due forme procedurali va precisato che rispetto all'ATP la mediazione prevede il termine minore di 3 mesi per l’espletamento, mentre l'elaborato conclusivo in sede di accertamento tecnico preventivo potrà essere utilizzato, anche se con determinati limiti, nel giudizio di merito. Se poi la CTU accerti un qualche profilo di responsabilità è intuibile che la compagnia di assicurazione possa formulare una proposta risarcitoria, tenuto conto delle sanzioni previste per la mancata partecipazione al procedimento e per la mancata formulazione dell’offerta.
In via generale al momento sembrano più frequenti i casi in cui le parti avvalendosi delle conclusioni raggiunte in sede di ATP raggiungano un accordo stragiudiziale. Inoltre l'importanza della consulenza preventivamente ottenuta deriva anche dall'assegnazione allo stesso giudice del successivo giudizio di merito (posto a conoscenza quindi della questione) in cui (se rito sommario) sarà possibile utilizzare pienamente la documentazione e le valutazioni fino a quel momento acquisite.
L’azione di rivalsa e di responsabilità amministrativa
Nei casi in cui venga emesso un provvedimento giudiziale o stragiudiziale che abbia attribuito un risarcimento del danno da "malpractice" l'art. 9 stabilisce termini e modalità per l’esercizio delle azioni di rivalsa e di responsabilità amministrativa a carico dei sanitari da parte della struttura sanitaria e dell'impresa assicuratrice tenute a risarcire il danno ma solo in presenza di dolo o colpa grave.
Se il medico non ha partecipato alla procedura stragiudiziale o al giudizio di risarcimento, l’azione di rivalsa nei suoi confronti può essere instaurata, a pena di decadenza, entro un anno dall'avvenuto pagamento, senza che possa opponibile in tale sede un'eventuale intervenuta transazione tra le parti.
Oltre all'azione di rivalsa, sempre nei casi di dolo o colpa grave il medico sarà soggetto ad un’azione di responsabilità amministrativa dinanzi alla Corte dei Conti che dovrà però intervenire, anche valutando l'incidenza nel caso concreto delle situazioni di particolare difficoltà organizzativa in cui il sanitario ha dovuto operare.
Infine dall'accoglimento della domanda del danneggiato derivano ulteriori conseguenze per il medico: per tre anni dal passaggio in giudicato della pronuncia egli non potrà essere preposto a incarichi professionali superiori a quello in essere e la decisione potrà incidere negativamente anche in caso di sua partecipazione a concorsi pubblici per incarichi superiori.
Aspetti assicurativi, azione diretta, Fondo di garanzia e risk management
Le strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, devono essere provviste di copertura assicurativa per la responsabilità civile verso terzi e verso i prestatori d’opera, anche per i danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso di esse e pure per le prestazioni svolte in regime di libera professione intramuraria o in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale o attraverso la telemedicina (artt. 10,11).
E' prevista un'ulteriore e specifica copertura assicurativa per la responsabilità extracontrattuale e naturalmente l'obbligo personale di copertura assicurativa per il sanitario che eserciti al di fuori delle strutture o che presti la propria opera all’interno delle stesse in regime libero-professionale o nell'adempimento dell'obbligazione contrattuale assunta con il paziente, non operando in tali ultimi casi l’obbligo di assicurazione a carico della struttura.
Il danneggiato potrà infine esercitare azione diretta, entro i limiti del massimale, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura pubblica o privata e di quella del sanitario che ha eseguito il trattamento entro gli stessi termini di prescrizione dell'azione verso la struttura sanitaria pubblica o privata o verso il sanitario (art. 12).
L'art. 13 prevede obblighi di comunicazione all'operatore medico per le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione circa l'instaurazione del giudizio promosso nei suoi confronti (o dell'avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato con invito a prendervi parte) entro dieci giorni dalla notifica dell'atto introduttivo. L’omissione, tardività o incompletezza di tali comunicazioni preclude l'ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui al precedente art. 9.
La riforma Gelli-Bianco prevede altresì, per i sinistri denunciati per la prima volta dopo la data di entrata in vigore della legge, l'istituzione di un Fondo di garanzia in relazione ai danni derivanti da responsabilità sanitaria nei casi espressamente previsti dall'art. 14.
Fra le ulteriori novità della riforma è previsto che nei giudizi civili e penali l'espletamento della consulenza tecnica sia affidata a un collegio formato da un medico legale e uno o più specialisti nella disciplina oggetto del procedimento, scelti tra gli iscritti negli albi e che siano in possesso di adeguate e comprovate competenze nell'ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi (art. 15).
Grazie all'art. 16 infine vi è sicuramente la valorizzazione delle cd. pratiche di risk management, preservata la sicurezza delle cure, obiettivo primario dell’attività sanitaria.
E' vietato infatti utilizzare al di fuori delle procedure di gestione del rischio clinico i relativi atti, vincolandoli ad una riservatezza interna che dovrebbe maggiormente tutelare gli operatori sanitari ed agevolare una più ampia collaborazione con le istituzioni preposte alla gestione del rischio sanitario.
ATP e Responsabilità medica
La consulenza tecnica preventiva con finalità conciliative, prevista dall’art. 696 bis c.p.c. [1], è un istituto finalizzato ad anticipare, ad un momento precedente al giudizio, la valutazione tecnica dei fatti di causa, che, nel rito ordinario, viene invece svolta durante la fase istruttoria dal consulente tecnico nominato dal giudice (attraverso lo strumento della Consulenza Tecnica d’ Ufficio). Attraverso il suddetto procedimento preventivo, quindi, è possibile domandare al giudice che venga disposta una consulenza tecnica prima dell’inizio della causa di merito.
Uno dei profili che caratterizzano l’istituto in parola riguarda l’attribuzione al consulente del potere di tentare la conciliazione fra le parti, in un’ottica deflattiva del processo di merito. In questo modo l’istituto acquisisce una duplice funzione: da un lato, quella probatoria e, dall’altro lato, quella conciliativa. In considerazione di ciò, la relazione che sarà redatta dal consulente tecnico potrà essere utilizzata nel successivo giudizio di come prova, mentre nel caso in cui il consulente riesca nella conciliazione, l’ istituto avrà permesso la definizione anticipata della lite senza dover introdurre un giudizio di merito.
Un’altra peculiarità di detta Consulenza Tecnica Preventiva disciplinata dall’art. 696 bis c.p.c., a differenza della ordinaria consulenza tecnica preventiva di cui all’art. 696 c.p.c., è che la stessa può essere concessa anche in assenza dello stato di periculum in mora (cui è invece subordinata la analoga misura peritale prevista dall’art. 696 c.p.c.). Inoltre, in aggiunta a tale aspetto, il consulente tecnico, nel caso della consulenza ex art. 696 bis c.p.c., avrà – come abbiamo visto – anche il compito di tentare la conciliazione fra le parti.
Nonostante tali caratteristiche peculiari, il legislatore ha comunque inserito l’ istituto in esame all’interno dei procedimenti di istruzione preventiva, rendendolo comunque legato al successivo giudizio di merito (del quale si sostanza come una sorta di anticipazione della fase istruttoria). Ciò permette di sostenere che, anche per tale procedimento, sia necessario che il ricorso richiesto sia rilevante nonché utile ai fini dell’ accoglimento della domanda di merito che il ricorrente ha intenzione di introdurre. Pertanto, ai fini della ammissibilità del procedimento di consulenza tecnica preventiva con finalità conciliativa, il giudice dovrà comunque valutare la sussistenza di tali aspetti. La suddetta richiesta di consulenza, infatti, si introduce con Ricorso sul quale il giudice deve compiere una delibazione positiva sulla ammissibilità, la rilevanza e l’utilità dell’accertamento tecnico richiesto, in relazione alla successiva domanda di merito che ha intenzione di introdurre il ricorrente.
Conseguentemente, il giudice deve rigettare il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. in tutti i casi in cui la consulenza tecnica preventiva appaia inammissibile o non rilevante o ancora non utile con riguardo all’oggetto della domanda risarcitoria formulata dal danneggiante.
Dal punto di vista procedurale, l’art. 696 bis rinvia al terzo comma dell’art. 696 c.p.c. e pertanto anche agli artt. 694 c.p.c. e 695 c.p.c., in quanto compatibili (questi ultimi, a loro volta, richiamati dal citato terzo comma dell’art. 696 c.p.c.). Inoltre, in virtù del fatto che l’istituto in esame è inserito all’interno del capo dei procedimenti cautelari, alla Consulenza Tecnica Preventiva conciliativa si applica altresì la disciplina procedurale di detti procedimenti. È, quindi, a tutte queste norme che deve guardarsi per individuare la disciplina procedurale applicabile all’istituto in esame.
A tal proposito, in questa sede, si può ricordare che l’istanza deve essere proposta attraverso un ricorso al giudice che è competente a decidere il giudizio di merito secondo i criteri ordinari previsti dal codice di procedura civile; inoltre, può essere rivolta sia al tribunale sia al giudice di pace qualora la controversia spetti alla competenza per valore di quest’ultimo. Il ricorso deve contenere gli elementi che servono per individuare la successiva domanda di risarcimento e conseguentemente devono essere esposti i fatti, le domande ed eccezioni che saranno fatte valere nel giudizio di merito e che la consulenza è finalizzata a provare. Attraverso tale contenuto, quindi, il giudice ha la possibilità di valutare la ammissibilità, l’utilità e la rilevanza della consulenza tecnica preventiva richiesta per accertare e determinare il diritto fatto valere dal ricorrente.
Se, all’ esito della valutazione di cui sopra, il giudice ritenga ammissibile il ricorso, fissa l’udienza di comparizione delle parti e assegna al ricorrente un termine per poter notificare il ricorso e il decreto di fissazione di udienza alla controparte, in modo che possa essere instaurato il contraddittorio con quest’ultima. Già nello stesso decreto di fissazione di udienza, oppure alla udienza di comparizione delle parti, il giudice provvede alla nomina del consulente tecnico d’ufficio che dovrà svolgere le operazioni peritali.
All’udienza prevista per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio, il giudice assegna l’incarico a quest’ultimo, dopo che egli ha giurato, e formula i quesiti che dovranno guidare il consulente stesso nello svolgimento dell’indagine peritale. A loro volta, le parti potranno nominare i rispettivi consulenti tecnici di parte che affiancheranno quello d’ufficio nello svolgimento delle operazioni oppure possono riservarsi di nominare i propri consulenti non oltre l’inizio delle operazioni peritali.
In materia di responsabilità sanitaria, l’art. 8 della Legge 8 marzo 2017, n.24 (c.d. Legge Gelli-Bianco), ha introdotto, per poter esercitare l’azione civile di responsabilità, un obbligo di esperire preventivamente un tentativo di conciliazione nella forma, proprio, della suddetta Consulenza Tecnica Preventiva di cui all’art. 696 bis c.p.c. Infatti, il secondo comma dell’art. 8 della legge Gelli-Bianco prevede che la presentazione del Ricorso per la consulenza tecnica preventiva conciliativa di cui al primo comma costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento e che tale condizione possa ritenersi soddisfatta anche in caso di alternativo esperimento del procedimento di mediazione di cui all’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28.
Ciò significa, quindi, che, qualora il danneggiato voglia ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di un intervento medico-sanitario, dovrà prima proporre il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. o il procedimento di mediazione e che, in mancanza di ciò, la domanda giudiziale di risarcimento danni non potrà essere esaminata dal giudice fintanto che uno di detti due procedimenti deflatttivi dal contenzioso non venga esperito.
Dal punto di vista procedurale, gli aspetti più importanti da rilevare con riferimento alla materia della responsabilità sanitaria, riguardano, in primo luogo, il fatto che l’art. 15 della Legge Gelli-Bianco prevede che il Giudice affidi l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento. Pertanto, in questa specifica materia è previsto l’obbligo di formazione di un collegio di periti con le suddette competenze. In secondo luogo, la legge gelli-bianco impone la partecipazione di tutte le parti al procedimento di consulenza tecnica. Tale obbligo di partecipazione riguarda anche le imprese di assicurazione dei medici o delle strutture sanitarie, le quali hanno l’obbligo di formulare un’offerta di risarcimento del danno. La mancata partecipazione delle parti al procedimento comporta l’applicazione di una sanzione al pagamento delle spese di lite: in altri termini, attraverso il provvedimento che definisce il giudizio, queste parti che non hanno partecipato al giudizio stesso verranno condannate a pagare le spese di lite della consulenza tecnica preventiva anche nel caso in cui l’esito della causa fosse a loro favorevole. In aggiunta a ciò, viene anche prevista una sanzione pecuniaria, il cui importo deve essere determinato in maniera equitativa dal giudice, che la parte che non ha partecipato al giudizio dovrà corrispondere a favore della parte che invece avrà partecipato. In questo modo, la norma impone altresì che tutte le parti coinvolte nell’evento di responsabilità sanitaria siano personalmente presenti nel procedimento, in modo che sia più agevole definire in maniera consensuale la controversia. Infine, l’ultimo aspetto rilevante che caratterizza la consulenza tecnica preventiva in materia di responsabilità medica riguarda la durata del procedimento stesso. Infatti, viene previsto che il termine massimo per concludere il procedimento è di sei mesi: termine che inizia a decorrere dal momento in cui è stato depositato il ricorso ai sensi dell’articolo 696 bis. A tal proposito, vi è però da rilevare come la legge Gelli-Bianco non individua le conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine di sei mesi di cui sopra: in altri termini, il legislatore non ha previsto che le attività compiute siano invalide, ma soltanto che decorso il termine semestrale, il ricorrente può presentare la domanda nel giudizio di merito.
Nel caso in cui la procedura conciliativa abbia esito positivo, l’accordo raggiunto dalle parti viene inserito all’interno del processo verbale del procedimento, al quale viene attribuito dal giudice – con proprio decreto – efficacia di titolo esecutivo, che costituirà pertanto titolo per ogni specie d’esecuzione forzata nonché per l’iscrizione di ipoteche giudiziali e godrà dell’esenzione dall’imposta di registro.
In caso di mancato raggiungimento dell’accordo, invece, le parti potranno introdurre il giudizio di merito dove – come abbiamo già detto – verrà acquisito l’elaborato peritale del procedimento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c.
Trattazione
Un problema molto dibattuto che si è posto con riferimento al procedimento di consulenza tecnica preventiva in materia di responsabilità sanitaria, riguarda il fatto se il giudice, poiché l’art. 8 della Legge Gelli-Bianco la individua come condizione di procedibilità della domanda, deve automaticamente ammettere la consulenza oppure debba comunque valutare la ammissibilità del Ricorso ex art. 696 bis c.p.c. e, soprattutto, se tale valutazione di ammissibilità debba riguardare anche l’esistenza o meno di una contestazione sull’ an della pretesa risarcitoria.
In altri termini, si è posto il problema se la Consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. debba essere ritenuta ammissibile solo quando è controverso il quantum del danno e non debba invece essere ammessa quando una parte contesta la stessa sussistenza dei danni e quindi anche la responsabilità professionale del medico e/o della struttura sanitaria coinvolti.
La questione era già stata portata all’attenzione delle corti di merito italiane, già prima della entrata in vigore della Legge Gelli-Bianco, soprattutto con riferimento a fattispecie diverse dalla responsabilità sanitaria.
Tuttavia, con l’introduzione dell’obbligo di esperire tale consulenza tecnica preventiva prima di introdurre un eventuale giudizio di merito per il risarcimento dei danni da responsabilità medica, la problematica è stata ripetutamente sollevata anche in molte cause da medici e strutture sanitarie che sono state convenute in giudizio dai pazienti danneggiati.
Sul punto è possibile rinvenire in giurisprudenza due contrapposti orientamenti: uno più risalente (ed ormai superato), secondo cui il Ricorso ex art. 696-bis c.p.c. sarebbe ammissibile solo quando è controverso soltanto il quantum del danno ed è pacifico l’an, mentre non sarebbe ammissibile quando una parte contesta la sussistenza dei danni; secondo l’altro orientamento, più recente e maggioritario, invece, il Ricorso sarebbe ammissibile anche nel caso in cui la parte o le parti convenute contestino la sussistenza dei danni lamentati dal ricorrente.
Per quanto riguarda il primo orientamento, i sostenitori ritengono che la consulenza tecnica preventiva richiesta sia inammissibile, nel caso in cui le parti controvertano anche su questioni connesse alla sussistenza del diritto fatto valere dal ricorrente. Secondo tale orientamento, poiché la consulenza tecnica preventiva ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. è un giudizio sommario volto a risolversi nell’esperimento di una C.T.U. preventiva, le cui risultanze – nelle intenzioni del Legislatore – dovrebbero essere utilizzate quale base per costruire l’accordo conciliativo tra le parti (che di detto istituto processuale ex art. 696 bis c.p.c. è il vero fine ultimo), la finalità conciliativa può essere effettivamente raggiunta soltanto quando le parti concordino sulla sussistenza del diritto invocato dal ricorrente (sostanzialmente sull’ an del danno lamentato) e ci sia contrasto soltanto sulla sua quantificazione.
In tali casi, il ricorso ai sensi dell’articolo 696 bis sarebbe ammissibile, invece in tutti gli altri casi, in cui le parti discutono anche sull’esistenza dei danni, il ricorso non sarebbe ammissibile in quanto non sarebbe raggiungibile la finalità conciliativa dell’istituto.
La giurisprudenza di merito che seguiva l’orientamento più risalente appena citato si è così pronunciata: “la richiesta di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis può trovare accoglimento se finalizzata alla composizione della lite, secondo la rubrica del citato articolo, talché suo presupposto è che la controversia fra le parti abbia come unico punto di dissenso ciò che, in sede di processo di cognizione può costituire oggetto di consulenza tecnica, acquisita la quale, secondo le preventivamente dichiarate intenzioni delle parti, appare assai probabile che esse si concilieranno, non residuando – con valutazione da compiersi in concreto ed ex ante – altre questioni controverse. È inammissibile, pertanto, la richiesta di detta consulenza laddove le parti non controvertano soltanto sulla misura dell’obbligazione risarcitoria, bensì anche sull’effettiva sussistenza della stessa, oltre che sull’individuazione del soggetto ad essa eventualmente tenuto” (Trib. Milano, 17.04.2007, in Giur. It., 2010, pag. 159; Trib. Milano, 17.04.2006, in Giur. it., 2007, v. 10, pag. 2268; Trib. Trapani, 10.10.2006, in Giur. Merito, 2007, v. 6, pag. 1649; Giudice Pace Bari, 5.04.2011, in Giurisprudenzabarese.it, 2011; nello stesso senso v. anche Trib. Rimini, 11.07.2010; Trib. Barcellona Pozzo di Gotto, 3.03.2009).
Tale orientamento giurisprudenziale era stato seguito anche dal Tribunale di Prato che con un’ ordinanza del 2013, in un giudizio tra un struttura sanitaria privata ed un suo paziente, aveva sostenuto che “il procedimento di cui all’art. 696 bis c.p.c., secondo l’orientamento ad oggi prevalente nella giurisprudenza, opera solo allorché la contestazione versi essenzialmente sul quantum della pretesa azionata dal ricorrente elo stesso sia di difficile determinazione, così apparendo altamente probabile che con l’intervento di un CTU che lo determini, la lite possa essere conciliata; (…) al contrario, ove dalle reciproche allegazioni delle parti emerga una chiara controversia sull’an, con impossibilità pratica di una conciliazione, la domanda deve essere respinta” (Trib. Prato, 18.04.2013). In questo caso, quindi, il ricorso era stato dichiarato inammissibile ed era stato rigettato dal giudice. Un anno dopo, sempre il medesimo Tribunale di Prato, aveva dato seguito alla propria posizione espressa un anno prima con altra pronuncia che aveva statuito che “presupposto della consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. è che la controversia fra le parti abbia come unico punto di criticità la determinazione dei crediti derivanti da fatto illecito o da inadempimento contrattuale. Nel caso di specie, invece, è contestata da parte resistente l’esistenza di una propria responsabilità (…) il ricorso in definitiva va rigettato per inesistenza dei presupposti di legge” (Trib. Prato, 01.04.2014).
Negli stessi termini si era espresso anche il Tribunale di Firenze, il quale aveva dichiarato inammissibile un ricorso per accertamento tecnico preventivo, sostenendo che: “la consulenza tecnica preventiva è pur sempre istituto finalizzato alla composizione della lite e presupposto per l’accertamento in parola è che la controversia tra le parti abbia come unico punto di dissenso ciò che, in sede di cognizione ordinaria, può costituire oggetto di CTU, per cui non può essere disposta quando la decisione della controversia implicherebbe la risoluzione di questioni giuridiche e l’accertamento di fatti che esulino dall’ambito delle indagini di natura tecnica, nonché quando il suo espletamento determinerebbe di fatto una compressione in sede sommaria di attività complesse tipiche del giudizio a cognizione piena; (…) considerato, infatti, che la controversia non riguarda soltanto la quaestio facti e la quantificazione del dovuto che, una volta ricostruite attraverso la consulenza tecnica, possano esaurire la materia del contendere presentandosi così a divenire oggetto di accordo tra le parti, ma la resistente replica sulla effettiva sussistenza della responsabilità, oltre che sulla individuazione del soggetto ad essa eventualmente tenuto” (Trib. Firenze, 18.12.2012).
Per quanto riguarda, invece, il secondo orientamento – che con il passare del tempo è diventato assolutamente prevalente e che oggi può ritenersi pacifico in tutti i tribunali italiani – numerose sono state le pronunce che in questi anni si sono susseguite, facendo leva sul fatto che l’elemento della contestazione della sussistenza del diritto fatto valere non può essere rilevante ai fini della valutazione sull’ammissibilità della consulenza tecnica preventiva. Secondo tale orientamento, quindi, il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. deve essere ammesso anche nei casi in cui il resistente contesti la sussistenza dell’ an della pretesa fatta valere dal ricorrente (sia essa collegata alla mancanza dei danni oppure alla correttezza della condotta del medico e della struttura sanitaria oppure, infine, alla mancanza del nesso di causalità fra detta condotta e i danni lamentati).
In questo senso si è, infatti, espressa la più recente giurisprudenza dei Tribunali italiani, affermando che:
“il ricorso all’art. 696 bis c.p.c. appare ammissibile anche laddove le parti controvertano sull’an debeatur”(Tribunale Roma Sez. VII Ord., 30/05/2016);
“è possibile avvalersi dell’istituto dell’accertamento tecnico preventivo in funzione conciliativa di cui all’art. 696 bis c.p.c., senza il requisito dell’urgenza, … oltre che per l’accertamento dello stato e/o della qualità di luoghi, cose o persone ( e oltre che per trarre valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all’oggetto della verifica), anche allo scopo di accertare e determinare i crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito” (Tribunale Verona, 06/03/2017);
“la consulenza tecnica preventiva di cui all’ art. 696-bis c.p.c. si sostanzia in un vero e proprio strumento di deflazione processuale, finalizzato alla composizione della lite prima dell’inizio del giudizio di merito e che prescinde dai presupposti del fumus e del periculum in mora: l’applicabilità di tale istituto non è limitata ai soli casi in cui tra le parti non vi siano contestazioni in merito all’an della pretesa e si controverta esclusivamente in merito al quantum dell’importo dovuto a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale; la verifica demandata al consulente può essere quindi estesa, oltre che alla determinazione dei crediti, anche all’accertamento della loro esistenza” (Tribunale di Cosenza, 22/05/2015);
“la ratio della norma di cui all’art 696-bis c.p.c., finalizzata a prevenire le liti e a deflazionare il contenzioso … ne impone la applicazione a tutte le possibili controversie in cui il soddisfacimento della pretesa economica dipenda da un accertamento in fatto” (Tribunale Cremona, 14/05/2014);
“la consulenza di cui all’articolo 696-bis c.p.c. può essere disposta anche a fronte di contestazioni circa l’an della pretesa a condizione che la stessa sia comunque volta ad acquisire elementi tecnici di fatto risolutivi ai fini non solo della quantificazione ma altresì dell’accertamento del credito” (Tribunale Parma Ord., 22/09/2014); nello stesso senso si veda anche Tribunale Palermo, 14/08/2019; Tribunale Mantova, 26/03/2010; Tribunale Milano, 27/04/2009.
Tale orientamento – come detto – è stato quindi seguito anche dagli altri tribunali che, in precedenza, si erano a volte espressi in senso favorevole al primo orientamento. In questo senso, emblematico è il caso del Tribunale di Prato che negli ultimi anni ha aderito totalmente all’orientamento ormai maggioritario, riconoscendo che il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. è ammissibile anche qualora le parti resistenti contestino la sussistenza del diritto fatto valere dal ricorrente. Infatti, in una recentissima Ordinanza del 26/11/2018, con cui ha disposto l’ammissione di una consulenza tecnica preventiva richiesta da un paziente che si riteneva danneggiato da un trattamento sanitario non correttamente eseguito da un medico, il Tribunale di Prato ha respinto l’ eccezione di inammissibilità che era sollevata dalla struttura sanitaria convenuta (dove lavorava il medico che aveva eseguito l’intervento), ritenendo “di dover aderire all’orientamento della giurisprudenza di merito che considera ammissibile il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. non solo nei casi in cui si controverta esclusivamente sul quantum, ma anche a fronte di contestazioni inerenti all’an debeatur, ossia rilevanti sotto il profilo dell’esistenza della responsabilità ovvero della riferibilità causale di un evento lesivo ad una determinata condotta (Tribunale di Milano, 17.02.2015; Tribunale di Milano, 13.04.2011; Tribunale di Arezzo, 04.07.2011; Tribunale di Mantova, 26.03.2010; Tribunale di Busto Arsizio, 25.05.2010)”; aggiungendo, inoltre, che “infatti, il procedimento di a.t.p. ai fini conciliativi non presenta tra i requisiti di ammissibilità la non contestazione in ordine all’an debeatur, per cui “il tenore letterale della norma e la esplicita finalità deflattiva perseguita dal legislatore non consentono di ravvisare, in via interpretativa, siffatto preteso requisito di ammissibilità che, di fatto, finirebbe per vanificare lo strumento processuale qualora fosse sufficiente a paralizzarne l’espletamento la semplice contestazione sull’an debeatur da parte del convenuto. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’ammissibilità del procedimento ex art. 696 bis c.p.c., assume il fatto che il convenuto dichiara espressamente che non intende addivenire a duna conciliazione della controversia” (Tribunale di Milano, 17.02.2015; Tribunale di Mantova, 26.03.2010)”. Orientamento che il Tribunale di Prato aveva già fatto proprio già nel 2015 laddove, con l’Ordinanza del 01.04.2015 aveva “ritenuto che l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata da parte del resistente, debba essere disattesa poiché la prospettata finalità conciliativa della consulenza tecnica preventiva consente di ritenere ammissibile il procedimento ex art. 696 bis cpc (concepito come mezzo di risoluzione delle controversie) non solo nei casi in cui tra le parti non vi siano contestazioni in merito all’an della pretesa e si controverta esclusivamente in merito al quantum dell’importo dovuto a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ma anche laddove sia incerto l’an stesso della pretesa e l’accertamento dei presupposti (cause) sia funzionale proprio alla successiva valutazione del quantum dell’eventuale credito. È infatti lo stesso art. 696-bis cpc, citato, a prevedere testualmente che la verifica demandata al consulente possa essere estesa, oltre che alla determinazione dei crediti, anche all’accertamento della loro esistenza”.
Da ultimo si è espresso sul punto il Tribunale di Marsala, che pochi mesi fa, si è trovato a decidere su un ricorso ex art. 696 bis c.p.c. introdotto dagli eredi di una persona defunta a seguito di un sinistro stradale per far accertare le cause del sinistro e l’esistenza dei danni. A fronte di tale ricorso, il Comune di Marsala ne ha eccepito l’inammissibilità in considerazione del fatto che vi erano numerosi punti di contrasto tra le parti che, secondo lo stesso Comune resistente, non potevano essere risolti attraverso il ricorso allo strumento dell’accertamento tecnico preventivo, anche perché c’erano contestazioni anche sulla imputabilità degli obblighi di manutenzione della strada nonché sulla ricostruzione dei fatti e la responsabilità dei conducenti nella causazione del sinistro. Ebbene, il Tribunale di Marsala ha ritenuto che il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. è ammissibile anche nel suddetto caso, soprattutto perché non appare opportuno al giudice siciliano limitare il potenziale ambito applicativo di uno strumento di conciliazione della lite soltanto in considerazione del fatto che vi siano numerose questioni controverse da risolvere o che queste siano particolarmente complesse (Tribunale di Marsala, Ordinanza 3 marzo 2019).
Conclusioni
L’ orientamento oggi prevalente in giurisprudenza, che vuole ammissibile il ricorso per accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’articolo 686 bis del codice di procedura civile anche qualora sia oggetto di contestazione la sussistenza del diritto fatto valere dal ricorrente, appare senza dubbio condivisibile ed in linea con il tenore letterale della disposizione normativa nonché con la stessa volontà del legislatore, sia del 2005 (che ha introdotto l’istituto in parola) sia del 2017 (che ha previsto l’esperimento di tale consulenza tecnica preventiva come condizione di procedibilità della domanda con cui si vuol far valere la responsabilità sanitaria di un medico o di una struttura sanitaria).
A tal proposito, appaiono più convincenti le argomentazioni poste a base del secondo orientamento che fanno leva, da un lato, sul tenore letterale della norma e, dall’altro lato sulla finalità deflattiva della stessa.
Per quanto riguarda, infatti, il primo aspetto, occorre evidenziare come l’articolo 696 bis del codice di rito reciti testualmente che “l’espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’articolo 696, ai fini dell’accertamento o della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito”. È evidente, pertanto, che lo stesso articolo in esame si riferisce espressamente all’accertamento del credito, dimostrando in tal modo che la consulenza tecnica preventiva può essere richiesta anche per far accertare se sussiste il credito invocato dal ricorrente. Ebbene, tale accertamento non avrebbe ragion d’essere se le parti fossero già d’accordo in ordine alla sussistenza del credito e quindi non discutessero con riferimento a tale aspetto. In altri termini, se il legislatore avesse voluto limitare l’uso della consulenza tecnica preventiva soltanto ai casi in cui non è contestata l’esistenza del credito, ma le parti controvertono esclusivamente sulla sua quantificazione, non avrebbe previsto che la consulenza può essere richiesta anche ai fini dell’accertamento del credito (oltre che della relativa determinazione), ma evidentemente si sarebbe limitato soltanto a questa ultima previsione.
Per quanto riguarda, invece, il secondo aspetto, occorre evidenziare come la finalità primaria della consulenza tecnica preventiva conciliativa è quella di favorire la composizione della lite prima dell’introduzione del procedimento giudiziario (e quindi la c.d. finalità deflattiva del contenzioso). È pacifico, infatti, che la consulenza di cui all’ art. 696 bis c.p.c. può essere richiesta anche quando mancano i presupposti previsti dall’art. 696 c.p.c. per la ordinaria consulenza tecnica preventiva (cioè il periculum in mora e il fumus boni iuris), che hanno natura e carattere cautelare. La consulenza tecnica preventiva di cui all’art. 696 bis c.p.c. è quindi più che uno strumento di anticipazione della fase istruttoria / probatoria (da utilizzare poi nel successivo giudizio di merito), un vero e proprio strumento di deflazione processuale.
Ebbene, la stessa finalità deflattiva della norma sarebbe fortemente svilita qualora l’Istituto potesse essere utilizzato esclusivamente nei casi in cui le parti già concordano sulla esistenza del diritto del ricorrente e controvento solo sulla sua quantificazione. Infatti, in tal caso, l’istituto si applicherebbe soltanto in casi molto limitati dal punto di vista numerico e che già sono in stato avanzato di conciliazione, in considerazione del fatto che le parti già concordano circa la responsabilità dei danni (devono soltanto individuare il loro valore). In questo modo l’istituto, che ha proprio la finalità di cercare di risolvere in maniera conciliativa e bonaria le controversie insorgende tra le parti e così impedire l’instaurazione di un giudizio di merito, non potrebbe svolgere tale funzione portando le parti, che al momento dell’introduzione del procedimento sono molto distanti tra di loro circa le reciproche pretese, a definire con un accordo la loro controversia. Invece, ammettere la possibilità di utilizzare la consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. anche nei casi in cui le parti discutono sulla sussistenza del diritto al risarcimento invocato dal ricorrente, permette all’ istituto in esame di svolgere a pieno la propria funzione conciliativa di cui si è appena detto.
Inoltre, occorre altresì rilevare come aderire all’orientamento minoritario – che vuole l’ ammissibilità del ricorso per accertamento tecnico preventivo con finalità conciliativa soltanto quando non vi sia un contrasto tra le parti in ordine all’ an del diritto invocato dal ricorrente – comporterebbe l’attribuzione di un potere arbitrario al resistente / convenuto in ordine alla decisione se far svolgere o meno il procedimento stesso. Infatti, in tal caso, al convenuto / resistente basterebbe contestare l’an della pretesa invocata dal ricorrente per far dichiarare l’inammissibilità del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. introdotto da controparte e evitare l’accertamento preventivo, rimandando tale accertamento a un successivo giudizio di merito. In questo senso, colgono nel segno le parole del Tribunale di Prato che, nella richiamata ordinanza del 2018, ha affermato come, seguire il vecchio orientamento, “di fatto, finirebbe per vanificare lo strumento processuale (NDR: della consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c.) qualora fosse sufficiente a paralizzarne l’espletamento la semplice contestazione sull’an debeatur da parte del convenuto”. Ciò sarebbe ancora più grave, se come conseguenza del rigetto del ricorso, il giudice pronunciasse anche una condanna del ricorrente al pagamento delle spese legali del procedimento ex art. 696 bis c.p.c. introdotto. Infatti, il ricorrente potrebbe essere indotto a contestare, strumentalmente, la sussistenza dei danni invocati dal ricorrente, col solo fine di rinviare ad un momento successivo l’accertamento di tale aspetto e soprattutto per ottenere la condanna del ricorrente a rimborsare le spese legali sostenute per la fase di procedimento che si è svolta. Tutto ciò con un ulteriore svilimento della funzione conciliativa e deflattiva che il legislatore ha palesemente attribuito all’istituto in esame.
Infatti, la norma in esame attribuisce al consulente tecnico d’ufficio il compito di valutare la percorribilità della via conciliativa, dopo aver esaminato e valutato gli aspetti tecnici che emergono nella fattispecie di fatto oggetto di consulenza. Ciò permette, evidentemente, di raggiungere un risultato conciliativo anche a fronte di una iniziale posizione intransigente delle parti, che si può attenuare proprio grazie alle valutazioni del consulente tecnico d’ ufficio e alla conseguente capacità di far riconsiderare alle parti le proprie rispettive posizioni inizialmente intransigenti.
D’altra parte, è opportuno evidenziare altresì come anche la Legge Gelli-Bianco sia andata nella direzione delineata dal secondo e più recente orientamento, nel senso di affidare, in materia di responsabilità medico sanitaria, “obbligatoriamente” a degli esperti il compito di effettuare un preventivo accertamento degli eventuali errori commessi dalle strutture sanitarie e del loro nesso di causalità con i danni subiti dal paziente, in modo da poter offrire al giudice elementi, spesso decisivi, per l’accertamento dell’an della pretesa e così gettare le basi per una possibile soluzione conciliativa. Soluzione che, visti gli esiti delle consulenze tecniche preventive ex art. 696 bis c.p.c. tenutesi negli ultimi anni in materia di malpractice medica, potremmo sostenere si verifica nella maggior parte dei casi in cui detta procedura viene esperita. Infatti, i risultati degli ultimi due anni di consulenza tecniche preventive ex art. 696 bis c.p.c. esperite in materia di responsabilità medico sanitaria, dimostrano in maniera evidente che le parti sono propense a definire concordemente, prima dell’introduzione del giudizio di merito, la loro controversia, qualora un collegio peritale di esperti terzi nominati dal giudice abbia già individuato l’esistenza o meno dei danni invocati del ricorrente, li abbia ricondotti o meno alla responsabilità del convenuto e infine li abbia quantificati.