Malasanità mediazione obbligatoria

Negli ospedali pubblici come in clinica; dal dentista come dal medico di famiglia; in sala operatoria ma anche via telemedicina. Dopo dieci anni di “stop&go”, l’Italia ha voltato pagina sulla gestione del rischio clinico.

Con la legge che reca "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie". Doppia l’anima del provvedimento - attesissimo dai camici bianchi - mirato a offrire più garanzie ai pazienti e a riequilibrare in sede di contenzioso, penale e civile, il rapporto tra medico e assistito.

Il far west nelle aule di tribunale, la fuga delle assicurazioni - ma il 98% dei procedimenti finisce su un binario morto -, i costi stellari, stimati in 10 miliardi di euro, attribuiti alla medicina difensiva e l’esigenza di prevenire e gestire il rischio clinico: queste le ragioni della legge. 

Sicurezza delle cure

La legge mette in piedi una articolata rete di prevenzione. A partire dall’attivazione in ogni Regione di un Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, deputato alla raccolta dei dati sugli eventi avversi e su cause, entità, frequenza e onere finanziario del contenzioso. Informazioni da trasmettere all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, che sarà istituito con decreto. L’Osservatorio dovrà anche individuare progetti per la sicurezza delle cure e la formazione del personale. A tutela del paziente, la direzione sanitaria avrà solo sette giorni di tempo per trasmettere la documentazione sanitaria richiesta dall’interessato. Infine, tutti i dati sui risarcimenti degli ultimi cinque anni andranno pubblicati sui siti internet delle strutture sanitarie.

L’articolo 6 introduce nel Codice penale il nuovo articolo 590-sexies - "Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario" - che esclude la punibilità, nel caso in cui l’evento si sia verificato a causa di imperizia e il professionista abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida validate da società scientifiche accreditate, pubblicate online dall’Istituto superiore di sanità.

In ambito civilistico, scatta un doppio regime: è contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, anche per danni derivanti dalle condotte dolose o colpose dei professionisti. In questo caso il termine di prescrizione è a dieci anni. Resta "contrattuale" la responsabilità del professionista che agisca in accordo diretto con il paziente. Assume invece natura extracontrattuale - onere della prova a carico del ricorrente e prescrizione a 5 anni - la responsabilità civile degli operatori sanitari chiamati in causa.

Per il risarcimento ci si atterrà alle tabelle sul danno biologico previste dal codice delle assicurazioni private, in attesa degli aggiornamenti contenuti nel Ddl Concorrenza, all’esame del Senato.

Conciliazione obbligatoria

Prima di esercitare un’azione di responsabilità civile, chi ritenga di aver subito un danno dovrà comunque causa civile mediazione 1tentare una conciliazione a partecipazione obbligatoria di tutte le parti, assicurazioni incluse, pena la non procedibilità della domanda di risarcimento. A un consulente tecnico d’ufficio (Ctu) - la legge ne riforma la disciplina - spetta il tentativo di conciliazione: solo in caso di insuccesso o trascorso il termine di sei mesi, si va in giudizio. L’eventuale azione di rivalsa successiva è contemplata in caso di dolo o di colpa grave del professionista.

Polizze per tutti

Le strutture pubbliche e private, per danni attribuibili al personale a qualunque titolo operante, devono assicurarsi per la responsabilità contrattuale verso terzi e verso i prestatori d’opera. Ospedali e cliniche dovranno poi tutelarsi per la copertura della responsabilità extracontrattuale verso terzi degli esercenti le professioni sanitarie, nell’ipotesi in cui il danneggiato esperisca l’azione direttamente contro di loro. Deve assicurarsi anche il professionista che svolga l’attività al di fuori delle strutture o in regime libero-professionale. Infine, tutti i sanitari passibili di azione della Corte dei conti per danno erariale o di rivalsa in sede civile, devono stipulare polizze per colpa grave.

Mediazione civile

L’istituto della mediazione civile nasce per alleggerire il carico giudiziale e si propone come alternativa o fase obbligatoria e preliminare all’instaurarsi di liti di natura civilistica. È stata introdotta con il Decreto Legislativo numero 28 del 2010. L’istituto è caratterizzato dall’assenza di formalità particolari, e si articola, a differenza del processo civile, in forma perlopiù orale. Si inquadra in quegli istituti stragiudiziali di “Alternative Dispute Resolution” di esperienza anglosassone, volti alla risoluzione delle controversie in tempi brevi e con bassi dispendi in termini di denaro e di tempo. L’articolo 3 del citato provvedimento, prevede a carico degli avvocati l’obbligo di informare per iscritto l’assistito sulla possibilità di avvalersi della mediazione, dei benefici fiscali connessi e dei casi in cui è obbligatoria. Alla mediazione civile non deve essere confusa la negoziazione assistita, che è invece un istituto attivato e gestito dai difensori delle parti, senza alcun mediatore.

Come si svolge la mediazione civile

La mediazione civile si svolge alla presenza di un mediatore nominato all’interno degli organismi di mediazione che siano iscritti nel registro tenuto presso il Ministero della Giustizia. Alla stessa partecipano le parti con l’assistenza dei rispettivi difensori. Il procedimento, secondo quanto previsto all’articolo 6 del Decreto Legislativo sopra citato prevede una durata massima di tre mesi. La competenza territoriale è fissata dall’articolo 4 del Decreto Legislativo: è competente un organismo che abbia una propria sede nel luogo del giudice che sarebbe territorialmente competente per la relativa controversia.

L’attivazione del procedimento

L’interessato può avviare il procedimento depositando la relativa domanda presso uno degli organismi territorialmente competenti. La domanda viene inviata via PEC e dovrà riportare in allegato la ricevuta del versamento dei costi per l’attivazione del procedimento.

L’adesione della parte chiamata

La parte chiamata avrà facoltà di aderire al procedimento compilando e depositando il modulo, solitamente predisposto dagli organismi di mediazione, per l’adesione. All’adesione dovrà essere allegata la ricevuta del versamento degli importi dovuti per la partecipazione. Dalla mancata adesione al procedimento il giudice potrà ricavare argomenti di prova secondo quanto previsto dall’articolo 116 comma 2 del codice di procedura civile.

Lo svolgimento della mediazione

Una volta attivato il procedimento, mediante il deposito della domanda, e designato il mediatore, viene fissato il primo incontro fra le parti. L’incontro deve essere fissato non oltre i trenta giorni successivi al deposito della domanda. In questa sede le parti potrenno decidere se proseguire con la mediazione od interromperla. Il mediatore potrà incontrare le parti od i difensori separatamente, stimolare il raggiungimento di un accordo conciliativo e finanche, di propria iniziativa, formulare una proposta conciliativa scritta. Lo stesso è tenuto al più stretto riserbo su quanto sia venuto a conoscenza e non potrà essere chiamato a deporre come testimone su quanto detto in fase di mediazione. Il mediatore è poi obbligato a formulare una proposta conciliativa ove le parti facciano espressa richiesta in tal senso. Al mediatore è possibile avvalersi di esperti iscritti negli appositi albi presso i tribunali. Gli incontri di mediazione sono verbalizzati sinteticamente.

Il raggiungimento dell’accordo od il mancato accordo

Gli esiti della mediazione potranno essere di due tipi: il raggiungimento di un accordo conciliativo o il mancato raggiungimento dello stesso. L’accordo conciliativo, ove stipulato, risulterà anche dal verbale conciliativo e sarà titolo esecutivo ai sensi e per gli effetti dell’articolo 474 del codice di procedura civile. Gli avvocati che assistono le parti nella mediazione dovranno dare atto che l’accordo raggiunto, ove raggiunto, sia conforme alle norme imperative ed all’ordine pubblico.

Quando la mediazione è obbligatoria

Secondo quanto disciplinato dall’articolo 5 comma 1-bis del Decreto Legislativo 28 del 2010, si sono alcune materie per le quali il procedimento in questione è obbligatorio. Da ciò discende che, in caso di mancata attivazione del procedimento di mediazione prima della relativa domanda giudiziale, quest’ultima sarà improcedibile. Il giudice, in questo caso, dovrà sospendere il processo ed invitare le parti ad attivare il procedimento. Al buon esito dello stesso le parti non avranno più interesse a proseguire nella controversia giudiziale. Ove viceversa non vada a buon fine le parti potranno proseguire la controversia dando atto al giudice del fallimento del tentativo svolto. Le materie per le quali il procedimento di mediazione è obbligatorio sono:

- Di natura condominiale

- Attinenti ai diritti reali

- Sulla divisione

- In ambito di diritto successorio

- Vertenti su patti di famiglia

- Inerenti a contratti di locazione, comodato o affitti di aziende

- Vertenti sul risarcimento del danno per responsabilità medica o sanitaria

- Su risarcimenti derivanti da diffamazione per mezzo stampa od altro mezzo di pubblicità

- In ambito di contratti bancari, assicurativi o finanziari

La mediazione facoltativa o volontaria

Ove la materia non sia inclusa in quelle per le quali è prevista la mediazione obbligatoria e non verta su diritti indisponibili, le parti avranno facoltà di attivare la mediazione volontaria (o facoltativa). Anche se  si tratta di mediazione facoltativa, dalla mancata adesione il giudice potrà desumere argomenti di prova secondo quanto previsto dall’articolo 116, comma secondo del codice di procedura civile. Fatto salvo il suo rapporto con il processo civile, lo svolgimento della mediazione volontaria è sostanzialmente analogo a quello di quella obbligatoria, fatta salva, appunto la sua non obbligatorietà ai fini dell’improcedibilità della domanda giudiziale.

Le agevolazioni fiscali connesse alla mediazione

L’articolo 17, secondo comma del provvedimento legislativo citato fa luce sui benefici che sono connessi all’attivazione dell’istituto in esame. Il verbale di accordo conciliativo, in primo luogo, non è assoggettato al versamento dell’imposta di registro fino all’importo di 50000 euro, ma sarà dovuto per la sola parte eccedente a detta somma. Tutti gli atti del procedimento sono poi esenti da bolli ed imposte, ma sono fatti salvi i costi previsti dall’organismo, la cui attivazione costa 40 euro oltre ad I.V.A. per parte (costi per la prosecuzione variano in relazione ai diritti controversi).

I costi dell’avvocato per la partecipazione alla mediazione

Con il Decreto numero 47 del 2018 sono stati pubblicati i parametri forensi per la partecipazione alle procedure relative. Gli onorari variano in relazione al valore patrimoniale del diritto oggetto di contesa. Ecco la tabella riassuntiva. I parametri devono intendersi indicativi: l’onorario professionale deve essere oggetto di accordo preventivo fra cliente ed avvocato.

Profili preliminari

Il settore del contenzioso inciso dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie) è contraddistinto, come noto, da un genere di conflittualità del tutto peculiare, quanto ad intensità emotivo-relazionale, a complessità tecnico-giuridica, a risvolti economico-sociali. A questi aspetti, già di per sé nient’affatto agevoli da coordinare contestualmente, si aggiungono le difficoltà della gestione della lite connesse, per un verso, alla frequente numerosità dei soggetti coinvolti, per un altro, alle ricadute in ambito penalistico della condotta offensiva.

Le novità di carattere processuale introdotte dalla riforma, poche, ma di significativa rilevanza e incidenza pratica, possono essere così sintetizzate:

a) introduzione di un doppio “filtro” di procedibilità (accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa ex art. 696-bis cpc e procedimento di mediazione ex d.lgs 28/2010), sebbene non in forma cumulata, bensì in via alternativa, su scelta dell’attore;

b) necessario esperimento del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. cpc in caso di utilizzo dell’accertamento tecnico preventivo;

c) esperibilità dell’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria ovvero di quella dell’esercente la professione sanitaria, con conseguente litisconsorzio necessario, rispettivamente, della struttura o dell’esercente;

d) esperibilità dell’azione di rivalsa da parte della struttura o dell’impresa di assicurazione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, fermo restando il rispetto delle condizioni previste dalla legge;

e) esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa da parte del pubblico ministero contabile nei confronti dell’esercente la professione sanitaria dipendente dalla struttura sanitaria pubblica.

La legge 24/2017 è anche intervenuta sulla qualificazione del titolo di responsabilità della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, stabilendo che la struttura risponde a titolo contrattuale (in linea con l’attuale “diritto vivente”), mentre l’esercente (inopinatamente rispetto agli ultimi approdi giurisprudenziali) a titolo extracontrattuale (salvo che abbia stipulato un contratto di prestazione d’opera professionale direttamente con il paziente, rispondendo, in tal caso, a titolo contrattuale).

Il quadro delle responsabilità così delineato dovrebbe portare con sé un alleggerimento dell’onere della prova in capo al danneggiato nell’ipotesi in cui questi decida di agire contro la struttura sanitaria (potendo egli limitarsi ad allegare l’inadempimento e il fatto costitutivo rappresentato dal contratto di spedalità, scaricando sul convenuto l’onere di provare il fatto impeditivo consistente nell’avere adottato la diligenza dovuta nell’esecuzione della prestazione oppure nell’impossibilità della prestazione stessa) ed un appesantimento nell’ipotesi in cui decida di agire contro l’esercente (avendo egli il più arduo compito di provare, in tal caso, il fatto costitutivo rappresentato dalla colpa o dal dolo).

Nella valutazione della responsabilità e nella individuazione del contenuto degli oneri di allegazione e prova, un ruolo determinante è svolto dalle “raccomandazioni contenute nelle linee guida” e dalle “buone pratiche clinico-assistenziali”, espressione di soft law, ma con portata più cogente rispetto al passato (in particolare, rispetto al dl 158/2012, conv. con modif. in legge 189/2012, cd. “legge Balduzzi”).

 

CONDIZIONI DI PROCEDIBILITÀ

 Il rapporto di alternatività tra l’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa (art. 696-bis cpc) e la mediazione (d.lgs 28/2010). L’esclusione della negoziazione assistita

L’originario testo dell’art. 5, comma 1, d.lgs 28/2010 aveva assoggettato le controversie in materia di «responsabilità medica» alla condizione di procedibilità costituita dal previo esperimento del procedimento di mediazione. Anche a causa delle ambiguità di tale locuzione, la riforma del 2013 (dl 69/2013, conv. con modif. in legge 98/2013) ha esteso l’ambito di applicazione del “filtro” alle controversie in materia di «responsabilità sanitaria» (vds. il nuovo comma 1-bis dell’art. 5 d.lgs 28 cit.), che, come ci informa la relazione di accompagnamento al decreto legislativo, presentano, non diversamente dalle prime, profili di particolare delicatezza e comunque un alto tasso di conflittualità che suggerisce (in realtà, impone) di tentare la via compositiva stragiudiziale.

Il legislatore del 2017, preso atto della scarsa percentuale di successo della mediazione in questa specifica materia, dovuto soprattutto alla frequentissima mancata partecipazione delle strutture sanitarie e delle imprese di assicurazione convocate, ha scommesso su un altro strumento di conciliazione, il cd. accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, disciplinato dall’art. 696-bis cpc, ponendone il relativo esperimento in via obbligatoria e preliminare al processo, ma allo stesso tempo in alternativa rispetto alla mediazione. Ne consegue che, ad oggi, la proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria deve essere necessariamente preceduta dal tentativo di conciliazione o in sede di mediazione oppure in sede di accertamento tecnico preventivo.

In realtà, la vera scommessa riguarda il potenziamento dello strumento di cui all’art. 696-bis cpc, reso ora più efficace, utile e, ad una prima impressione, più appetibile di quello regolato dal d.lgs 28/2010.

Orbene, è indubbio che tale istituto e quello della mediazione svolgano (sia pure parzialmente) la medesima funzione, perseguendo entrambi (almeno) finalità conciliative e deflattive. Altrettanto indubbio è che l’efficacia dell’accordo di conciliazione ex artt. 11 e 12 d.lgs 28/2010 non presenti differenze rispetto a quella dell’accordo raggiunto all’esito della consulenza tecnica preventiva, potendosi entrambe apprezzare sul piano negoziale ai sensi dell’art. 1372 cc, sul piano esecutivo ai sensi dell’art. 474, comma 2, n. 1 e comma 3, cpc e sul piano dell’idoneità a costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale per esplicita previsione di legge. Altri profili di affinità possono poi cogliersi sul piano delle agevolazioni e degli incentivi fiscali e nella presenza di un terzo equidistante tra le parti non chiamato ad emettere alcuna decisione.

Ciò non toglie che sussistano importanti difformità strutturali tra i due istituti relative, oltre che al tipo di attività svolta dal mediatore e dal consulente tecnico, anche all’approccio da adottare, alle tecniche da utilizzare nella gestione del conflitto, al livello di riservatezza garantita, alla natura del procedimento. Diversità vi sono poi anche sul piano istruttorio, poiché soltanto la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice può fare ingresso nel successivo processo per il tramite dell’istanza di parte, mentre quella svolta dall’esperto eventualmente nominato nel procedimento di mediazione, secondo una diffusa opinione, può tutt’al più costituire una prova atipica la cui acquisizione al processo dipende dal prudente apprezzamento del giudice.

Sotto quest’ultimo punto di vista, i vantaggi del procedimento ex art. 696-bis cpc sono innegabili. Anzi, la finalità realmente perseguita dal legislatore è proprio quella di favorire la formazione di un risultato istruttorio di natura tecnica acquisibile in una sede processuale destinata a svolgersi non a caso, come si vedrà (vds. infra § 13), secondo le più semplificate forme degli artt. 702-bis ss. cpc.

Tuttavia, questo significa non che la via della mediazione abbia perso senso, ma soltanto che le “porte” di accesso obbligatorio alla gestione delle liti da medical malpractice a fini conciliativi si sono moltiplicate. Si tratta, a ben vedere, di individuare lo strumento più adeguato al caso di specie, in base agli obiettivi perseguiti (mero risarcimento dei danni e/o soddisfazione personale e di principio e/o condanna “esemplare” e così altri), alla complessità tecnico-giuridica della vicenda, al grado di coinvolgimento emotivo della vicenda umana sottesa.

Il legislatore, in ogni caso, ha ritenuto di escludere (in via ulteriormente alternativa) l’istituto della negoziazione assistita, introdotta dall’art. 3 dl 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162 [6], che, dunque, nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria, non deve essere obbligatoriamente esperito anche se si tratti di domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro.

Ciò premesso, si può passare all’esame più dettagliato del funzionamento dei due “filtri” applicabili.

La scelta per la mediazione e la ratio del “filtro”

Come anticipato, il soggetto leso che intenda richiedere giudizialmente il risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria (oppure, in via di azione diretta, nei confronti dell’impresa di assicurazione dell’una o dell’altro, ai sensi dell’art. 12, legge 24 cit.), è obbligato ad esperire uno dei due procedimenti conciliativi in via preliminare, in base alla sua scelta.

Prima della riforma del 2017, l’introduzione di una disciplina espressa, quale quella della mediazione aveva consentito di consacrare, in materia di responsabilità sanitaria e medica, l’importanza e l’utilità di alcune importanti iniziative e prassi di tipo conciliativo.

A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs 28/2010 si è fatto tesoro di queste iniziative ed esperienze nella fase di gestione del conflitto e nella comprensione delle sue dinamiche, soprattutto in sede di mediazione cd. delegata.

La scelta per la mediazione, invece che per l’accertamento tecnico preventivo, oggi, come e più che nel passato, comporta la preferenza per un percorso collaborativo che prescinda dal piano meramente giuridico o anche soltanto tecnico e consenta alla parte istante di instaurare un canale di comunicazione con la parte convocata (struttura sanitaria, esercente la professione sanitaria) che in precedenza non era stato possibile avviare o che, pur avviato, si era interrotto o che si era sviluppato su piani paralleli incompatibili con la dimensione dell’incontro e della comprensione reciproca.

Occorre poi sottolineare che le liti in materia possono essere soggettivamente molto complesse, poiché, infatti, spesso coinvolgono non soltanto il paziente e il medico o il paziente e la struttura sanitaria o il paziente, il medico e la struttura sanitaria, ma anche le compagnie di assicurazione, nonché, in caso di evento morte, i familiari del defunto. Ne deriva la compresenza di un coacervo di posizioni e interessi non omogenei e, quindi, non agevolmente coordinabili.

Tutto ciò ha portato a suggerire di suddividere il procedimento di mediazione in due fasi almeno: la prima, diretta a favorire il recupero del contatto comunicativo e del reciproco riconoscimento tra i soggetti coinvolti; la seconda, volta alla individuazione di un punto di equilibrio e di soddisfazione condivisa sul piano risarcitorio, anche attraverso l’esame degli aspetti medico-legali del caso [10], la cui valutazione tenga conto di tutte le variabili del caso (quali, ad esempio, l’eventuale rilevanza penale dell’illecito oppure anche la diffidenza del paziente o dei suoi familiari rispetto al rappresentante della struttura, in quanto soggetto distante e non sempre in grado di percepire il travaglio umano).

Orbene, l’assistenza di un mediatore particolarmente qualificato e competente ed eventualmente di un co-mediatore, ma soprattutto il clima collaborativo che la mediazione dovrebbe contribuire ad instaurare (se ben gestita e se correttamente intesa nel suo spirito più genuino), costituiscono elementi idonei a far cadere su di essa la scelta del “filtro” da esperire.

A ciò si aggiungano gli indubbi vantaggi connessi alle garanzie di riservatezza e confidenzialità (vds. gli artt. 9, 10, 14 d.lgs 28/2010) e gli incentivi di carattere fiscale che il procedimento di mediazione assicura (vds. gli artt. 17 e 20 d.lgs 28/2010), oltre alle ampie potenzialità esecutive del verbale di conciliazione e dell’allegato accordo ottenibili anche attraverso la sottoscrizione da parte degli avvocati “ove presenti” (vds. l’art. 12 d.lgs 28/2010).

In senso contrario, non lo si può negare, giocano altri fattori, quali l’onerosità del procedimento per scaglioni di importo elevato (vds. art. 16 dm 180/2010, e successive modificazioni) destinata ad accrescersi in caso di nomina di esperti tecnici (vds. l’art. 8, comma 4, d.lgs 28/2010); la non tanto infrequente impreparazione dei mediatori rispetto alla specifica tipologia di contenzioso; le odiose conseguenze in tema di pagamento delle spese processuali in caso di rifiuto della proposta conciliativa e di successiva condanna da parte del giudice ad un importo perfettamente corrispondente a quello indicato nella proposta rifiutata (vds. l’art. 13, d.lgs 28/2010). Fattori questi, che potrebbero scoraggiare il soggetto danneggiato e consigliargli di intraprendere la via dell’accertamento tecnico preventivo. E tuttavia, lo si ribadisce, sulla scelta del “filtro” dovrebbero incidere altre valutazioni, tra le quali, oltre a quelle già indicate attinenti ai vantaggi e agli svantaggi dell’uno e dell’altro, anche l’oggetto della controversia (che se, ad esempio, riguarda la violazione dell’obbligo relativo al consenso informato, non abbisogna di accertamenti di tipo tecnico).

La mancata partecipazione al procedimento e le sanzioni per l’atteggiamento “non collaborativo”

Il buon funzionamento della mediazione si gioca soprattutto sulla possibilità di riunire attorno ad un unico tavolo di discussione tutti i soggetti coinvolti nella vicenda oggetto di lite, non solo affinché si favorisca, per quanto possibile, la corrispondenza soggettiva e oggettiva del procedimento con il successivo eventuale processo (anche ai fini della osservanza della condizione di procedibilità), ma anche perché aumentino le chance di una composizione definitiva e il più possibile satisfattiva della lite in via stragiudiziale.

A questo proposito, l’art. 8, comma 4-bis, d.lgs 28/2010 stabilisce che «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».

La norma fa discendere l’applicazione delle due sanzioni (l’una operante sul piano istruttorio, l’altra sul piano economico) dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Orbene, se il procedimento prende avvio con la presentazione dell’istanza di mediazione presso l’Organismo di mediazione competente e la nomina del mediatore, la prima occasione nella quale può constatarsi l’assenza della parte è certamente il “primo incontro”, fissato «non oltre trenta giorni dal deposito della domanda» ai sensi dell’art. 8, comma 1, secondo periodo, d.lgs 28 cit..

Ricevuta la comunicazione della domanda e della data del primo incontro «con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante» (vds. art. 8, comma 1, d.lgs 28 cit.), la parte convocata è libera di aderire oppure no, valendo la condizione di procedibilità soltanto per la parte istante. In caso di adesione, non sono previste particolari forme o termini di “costituzione” dalla cui inosservanza possano scaturire nullità, preclusioni o decadenze, poiché il procedimento di mediazione è del tutto sganciato dalla logica e dagli schemi processuali e governato dalla informalità.

Prima delle modifiche apportate nel 2013, quando il d.lgs 28/2010 non dedicava una disposizione specifica allo svolgimento del “primo incontro” (salvo quella relativa alla fissazione della data in cui questo doveva tenersi), accadeva molto di frequente (soprattutto nelle controversie in materia assicurativa) che, a fronte della comunicazione dell’istanza di mediazione, la controparte scegliesse di non prestare la propria adesione oppure comunque non partecipasse all’incontrocausa civile mediazione 2, lasciando che quest’ultimo e di conseguenza l’intero procedimento, si concludessero in un nulla di fatto. L’unica sanzione prevista in caso di mancata partecipazione era costituita dalla possibilità per il giudice di desumere argomenti di prova nel successivo processo ex art. 116, comma 2, cpc, disposizione che, unitamente ad altre (in particolare, quelle di cui agli artt. 5 e 13 d.lgs 28 cit.), consentiva di desumere l’esistenza di un vero e proprio obbligo (non di conciliazione, giammai, bensì) di cooperazione imposto dal legislatore alle parti.

Sennonché, fu presto gioco facile aggirare la sanzione e allo stesso tempo la condizione di procedibilità. Si diffuse, infatti, una prassi, in base alla quale l’Organismo di mediazione, a fronte del rifiuto di aderire al procedimento, si limitava a rilasciare un’attestazione dell’esito negativo del procedimento, senza bisogno di procedere alla nomina del mediatore. La necessità di tenere il primo incontro, di conseguenza, veniva del tutto meno. La non conformità di questa prassi alla normativa dettata dall’art. 5, comma 1 (testo originario), fu stigmatizzata dal Ministero della giustizia, che nella circolare del 4 aprile 2011 sottolineò il fatto che, ai fini della effettività della mediazione, solo il mediatore designato avrebbe potuto constatare la mancata comparizione della parte invitata e redigere il verbale negativo del tentativo di conciliazione; in mancanza non si sarebbe potuto ritenere assolta la condizione di procedibilità.

Successivamente, il dm 6 luglio 2011, n. 145 ha recepito queste indicazioni, aggiungendo all’art. 7, comma 5, la lett. d), dm 180/2010, nel senso che «nei casi di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, il mediatore svolge l’incontro con la parte istante anche in mancanza di adesione della parte chiamata in mediazione, e la segreteria dell’organismo può rilasciare attestato di conclusione del procedimento solo all’esito del verbale di mancata partecipazione della medesima parte chiamata e mancato accordo, formato dal mediatore ai sensi dell’articolo 11, comma 4, del decreto legislativo». Il dl 13 agosto 2011, n. 138, conv. con modif. in legge 14 settembre 2011, n. 148, ha poi provveduto ad aggiungere all’art. 8, comma 5, la previsione per la quale «Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».

Sennonché, la Corte costituzionale con la sentenza già citata n. 272 del 6 dicembre 2012, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 1, d.lgs 28 cit., ha dichiarato anche – in via consequenziale – quella delle disposizioni connesse al funzionamento della condizione di procedibilità, quindi anche l’art. 8, comma 5.

Infine, il cd. “decreto del fare” (dl 69/2013, conv. con modif. in legge 98/2013 cit.) come già detto, ha ripristinato la condizione di procedibilità e le previsioni cadute per effetto della pronuncia della Consulta, ripetendo le sanzioni per la mancata partecipazione al procedimento, ma destinando ambiguamente il “primo incontro” delle parti innanzi al mediatore alla verifica della possibilità dell’avvio di un percorso di mediazione e, nel caso positivo, al suo svolgimento [19] (vds. il novellato art. 8, comma 1, terzo, quarto e quinto periodo, d.lgs 28 cit.). Modifiche queste, che vanno lette unitamente a quelle di cui all’art. 17, comma 5-ter, d.lgs 28 cit., secondo cui «Nel caso di mancato accordo all'esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l'organismo di mediazione» e all’art. 5, comma 2-bis, secondo cui «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo».

Ciò premesso, va precisato che, in senso letterale, la «mancata partecipazione al procedimento» dovrebbe consistere nella «mancata partecipazione a tutti gli incontri di mediazione, compreso il primo». Tuttavia, poiché è impensabile che la parte sia costretta a presentarsi alle varie sessioni anche quando, ad esempio, a causa dell’andamento non soddisfacente del percorso mediativo, vi abbia perso interesse, deve ritenersi che la mancata partecipazione sia riferibile al solo «primo incontro».

Va pure precisato che alla parte che non abbia prestato la propria adesione non è impedito cambiare idea; in sostanza, posto che oggi un incontro di mediazione deve comunque tenersi, sino a tale momento dovrebbe essere sempre possibile alla parte convocata che non abbia preventivamente adito, presentarsi al tavolo di mediazione.

Veniamo ora alle conseguenze della mancata partecipazione, in parte già accennate, rappresentate da sanzioni di diversa natura: la prima, consistente nell’attribuzione al giudice del potere di valutare il comportamento “contumaciale” della parte in mediazione alla stregua di un argomento di prova ex art. 116, comma 2, cpc; la seconda, consistente nella condanna al versamento di una somma di danaro all’entrata del bilancio dello Stato corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. In entrambi i casi, la sanzione in tanto può essere applicata, in quanto la mancata partecipazione non sia riconducibile a un giustificato motivo.

A ben vedere, si tratta di soluzioni tecniche alquanto discutibili.

Quanto alla prima, attribuire al giudice il potere di desumere argomenti di prova (che, secondo un orientamento giurisprudenziale, sono autonomamente idonei a fondare il convincimento per la decisione) dal comportamento assunto dalla parte in mediazione, significa intrecciare ambiti, quello della mediazione e quello processuale, che dovrebbero essere mantenuti invece assolutamente indipendenti.

Quanto alla seconda sanzione, stupisce il fatto che essa colpisca solo la parte costituita nel successivo giudizio, perché ne discende un pregiudizio proprio per chi decide di non restare inerte, ma di difendersi attivamente nel processo.

Da quanto detto emerge chiaramente l’importanza di stabilire cosa debba intendersi per giustificato motivo, che, si badi, la norma non specifica se debba essere “oggettivo” o “soggettivo”.

Escluso che questo possa consistere nella mera asserita infondatezza della pretesa avversaria e, a maggior ragione, in un personale scetticismo nei confronti dell’istituto della mediazione, possono essere individuate, a titolo di esempio, le seguenti ipotesi:

-   “incompetenza” territoriale dell’organismo di mediazione, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.lgs 28 cit., secondo cui la domanda di mediazione deve essere presentata «presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia»;

-   proposizione della domanda di mediazione innanzi a un organismo diverso da quello individuato convenzionalmente dalle parti nella clausola di mediazione, ai sensi dell’art. 5, comma 5, ultima parte, d.lgs 28 cit.;

- mancanza o invalida comunicazione alla controparte, imputabile all’organismo o alla parte istante;

- impossibilità oggettiva della parte convocata di partecipare al primo incontro;

- ricezione di una istanza di mediazione dalla quale non si evinca la materia del contendere.

 

In capo alla parte convocata non sussiste un vero e proprio obbligo di comunicazione, all’organismo o alla parte istante, del motivo della mancata partecipazione, sebbene ragioni di carattere prudenziale suggeriscano di provvedere sempre. In ogni caso, in mancanza di tale comunicazione, la questione è destinata a porsi in sede processuale innanzi al giudice, al quale soltanto spetta la valutazione in ordine alla idoneità del motivo (portato per la prima volta alla sua attenzione) a evitare l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 8, comma 4-bis. Peraltro, anche ove la comunicazione fosse effettuata, comunque il mediatore non avrebbe alcun potere valutativo in tal senso, spettando esso, anche in questo caso, al giudice.

Ai fini dell’avveramento della condizione di procedibilità, occorre tenere conto, peraltro, di quanto disposto dal citato art. 5, comma 2-bis, secondo cui «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo».

Ora, il “mancato accordo” costituisce ipotesi distinta dalla mancata partecipazione.

Esso può derivare anche da un rifiuto delle parti comparse di procedere oltre e, quindi, di avviare la vera e propria mediazione per ragioni “di merito”.

Tali ragioni che, come è agevole immaginare, possono essere molto diversificate e varie, per comodità di sintesi possono essere distinte in:

a) ragioni attinenti alla funzionalità e/o efficienza dell’organismo di mediazione adito o alla serietà, imparzialità, competenza del mediatore designato o alla idoneità dei luoghi della mediazione o infine o a mere esigenze di opportunità;

b) ragioni attinenti alla fondatezza o no della pretesa.

Sub a), è appena il caso di precisare che non si può trattare ovviamente degli stessi casi su indicati (“incompetenza” dell’organismo, notevole distanza, e così via) che giustificano la mancata comparizione, perché nell’ipotesi che si sta considerando (“mancato accordo”) le parti sono presenti. Inoltre, le cause ostative alla prosecuzione devono poter essere riscontrabili ed essere riscontrate soltanto in occasione del “primo incontro”.

Invero, alcune di esse possono essere superate facilmente (ad esempio, attraverso l’individuazione di luoghi più consoni alla mediazione e all’esigenza di riservatezza) e comportare un semplice rinvio del primo incontro. In sostanza, le parti vorrebbero iniziare la mediazione, ma una delle due o entrambe sarebbero disposte a farlo soltanto in condizioni logistiche diverse. In tali casi, non può dirsi che il “primo incontro” si sia concluso “senza l’accordo” e che, quindi, la condizione di procedibilità si sia avverata, perché nessuna attività, neanche di tipo informativo e/o esplorativo e/o programmatico è stata avviata. Sicché, la parte obbligata (ex lege o per ordine del giudice) all’esperimento del procedimento di mediazione, che proponesse domanda giudiziale nei confronti dell’altra dopo il “primo incontro” in senso temporale, ma prima della data nella quale quest’ultimo dovrebbe tenersi effettivamente, andrebbe incontro al rilievo d’ufficio o all’eccezione di improcedibilità.

Molto più spesso può accadere, invece, che le ragioni del “mancato accordo” siano più gravi. Venuta meno la fiducia nell’organismo adito o nel mediatore, l’approccio inizialmente collaborativo può scemare. Anche in tali casi si potrebbe eliminare la causa ostativa attraverso la presentazione dell’istanza di mediazione presso un altro organismo oppure attraverso la nomina di un altro mediatore, eventualmente su accordo delle parti. Un atteggiamento irragionevolmente chiuso della parte chiamata, decisa a non voler proseguire neanche a nuove condizioni, dovrebbe porre al sicuro la parte istante circa l’avvenuto avveramento della condizione di procedibilità, potendosi affermare in questo caso che, nonostante tutto, nessuna intesa è stata raggiunta per la prosecuzione della mediazione.

Sub b), si dovrebbe ulteriormente distinguere tenendo conto della diversità di situazione e del contesto che può sussistere tra mediazione obbligatoria ab origine e mediazione “disposta” dal giudice (e mediazione “da clausola”).

Invero, potrebbe accadere che la parte chiamata, pur non intendendo concedere alcunché all’avversario, decida ugualmente di comparire, al fine di evitare di incorrere nelle sanzioni previste dall’art. 8, comma 4-bis, esprimendo nella sede del “primo incontro” e nella piena consapevolezza del significato della mediazione, la propria opposta e irremovibile posizione. In tale ipotesi, che vede concludersi il “primo incontro” senza un accordo, ben potrebbe dirsi realizzata la condizione di procedibilità.

Potrebbe poi anche verificarsi il caso in cui le parti, pronte astrattamente a collaborare, non riescano in concreto ad instaurare un canale di comunicazione. Non è infrequente, infatti, che ciò che, a distanza, può apparire piccolo e insignificante, visto più da vicino può spaventare o irrigidire. E così, i litiganti, spinti a più miti consigli dai propri avvocati nei rispettivi studi legali, trovatisi l’uno di fronte all’altro al cospetto del mediatore, possono tornare a litigare, determinando il naufragio della mediazione prima ancora che questa possa effettivamente iniziare (e magari nonostante l’impegno profuso in quella sede dal mediatore e dai difensori).

Ora, con riguardo all’ipotesi – comunque non frequente, come si è detto, in materia di responsabilità medica e sanitaria – in cui le parti convocate compaiano al “primo incontro”, si pone il problema della individuazione delle attività che il mediatore è chiamato a compiere.

A questo proposito, è bene specificare che le modifiche apportate nel 2013 hanno puntato sul duplice obiettivo di evitare che la mediazione si concluda negativamente prima ancora di iniziare e di offrire alle parti la garanzia che la partecipazione al “primo incontro” non significa vincolarsi allo svolgimento del percorso mediativo, non impegna al pagamento di alcun compenso a titolo di indennità di mediazione, nonché (per quanto riguarda l’attore) è idonea a soddisfare la condizione di procedibilità anche in caso di mancata intesa sulla prosecuzione del procedimento.

Ciò detto, il su accennato problema si pone nei seguenti termini: il mediatore, al primo incontro, deve limitarsi ad una attività meramente esplorativo-ricognitiva della volontà/disponibilità delle parti ad avviare un percorso mediativo, con rilascio, in caso contrario, dell’attestato di conclusione negativa del procedimento ovvero con rinvio, in caso positivo, ad altro incontro per lo svolgimento effettivo? Oppure, constatata la volontà/disponibilità delle parti, può già procedere alla mediazione?

A questo problema se ne aggiunge un altro strettamente connesso: se il “primo incontro” deve poter essere già dedicato allo svolgimento della mediazione, è necessario che le parti in contesa compaiano personalmente perché la mediazione possa dirsi effettiva? Oppure è sufficiente che siano rappresentate da soggetti muniti dei relativi poteri, se del caso gli stessi difensori?

Sotto il primo profilo, la lettera della norma (in combinato con quanto disposto dall’art. 8, comma 1, d.lgs 28 cit.) sembra suggerire che il mediatore non possa avviare subito e senz’altro il percorso mediativo vero e proprio, ma debba: spiegare alle parti la portata e la finalità dello strumento alternativo intrapreso ed il suo funzionamento; invitare le parti e i loro difensori a manifestare la propria (eventuale) intenzione di iniziare la procedura; procedere con lo svolgimento effettivo dell’attività di mediazione soltanto ove tale intenzione venga espressa [rilasciando, in caso contrario, l’attestato di conclusione negativa del procedimento, ai sensi dell’art. 7, comma 5, lett. d), dm 180/2010, cit.].

Insomma, per un verso, il “primo incontro” non è destinato di per sé all’immediato svolgimento dell’attività di mediazione, per un altro, non è escluso che, con il consenso delle parti, si possa già in tale sede iniziare il percorso di mediazione in senso stretto. Ragionando in senso troppo rigido, infatti, si rischierebbe di ridurre il “primo incontro” ad una inutile farsa, là dove, invece, sia possibile già avviare la sessione di ascolto e tentare di ripristinare il canale di comunicazione ormai venuto meno. Il che non significa che, in presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, non si possa rinviare l’incontro al fine di consentire a tutti di partecipare.

Sotto il secondo profilo, la comparizione personale delle parti è estremamente opportuna, come di conseguenza è opportuno che, tra le previsioni facoltative del regolamento di procedura, figuri quella secondo cui «il mediatore deve in ogni caso convocare personalmente le parti», ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. a), dm 180/2010.

Non pare, invece, che vi sia un obbligo in tal senso, né ai fini dell’osservanza della condizione di procedibilità, né ai fini dell’effettività della mediazione. La questione, però, è dibattuta.

In base a un rigoroso orientamento giurisprudenziale, il “filtro” di accesso non può dirsi osservato se le parti non siano comparse personalmente innanzi al mediatore e questi non abbia verificato effettivamente se vi siano margini per l’instaurazione di un percorso conciliativo [29]. La presenza dei soli difensori al “primo incontro” di mediazione, secondo questa giurisprudenza, non sarebbe idonea e sufficiente.

A questo orientamento, tuttavia, si può replicare che:

- la presenza dei soli avvocati deve comunque ritenersi più che sufficiente a garantire il già avvenuto assolvimento degli obblighi informativi delle parti e, dunque, un sia pur minimo grado di consapevolezza circa il significato e il funzionamento della mediazione;

- la partecipazione dei legali al “primo incontro” e non dei loro assistiti può rivelare in taluni casi l’intenzione di questi ultimi di sondare la sussistenza di eventuali margini di trattativa, senza tuttavia esporsi di persona (almeno non subito), mentre in altri casi (ad esempio, quelli in cui si tratta semplicemente di transigere sulla somma dovuta da una parte all’altra e il rapporto non è destinato a durare nel tempo) può persino accelerare la formazione dell’accordo;

- la mediazione può svolgersi utilmente anche con un soggetto munito dei necessari poteri di rappresentanza a fini conciliativi e transattivi; sicché, molto più ragionevole e coerente con la tanto decantata finalità deflativa del procedimento, sarebbe distinguere tra ipotesi nelle quali la comparizione personale delle parti è indispensabile o comunque estremamente opportuna (rapporti destinati a durare nel tempo e pretese risarcitorie conseguenti alla violazione di diritti della personalità) e ipotesi nelle quali questa comparizione può essere sostituita dalla presenza di procuratori, se del caso appunto gli stessi difensori, purché a conoscenza dei fatti e muniti dei relativi poteri per transigere e conciliare (del resto, in sede processuale ciò è possibile ai sensi degli artt. 185 e 420, comma 2, cpc).

Una volta concluso il “primo incontro”, il suo esito deve essere riportato in un apposito verbale, che attesterà, volta a volta, la mancata comparizione della parte convocata, il mancato raggiungimento di un accordo sulla prosecuzione del procedimento, il perfezionamento di un’intesa in ordine all’avvio della mediazione. Le risultanze del verbale, potranno rilevare, rispettivamente, in sede processuale ai fini della valutazione da parte del giudice delle ragioni della mancata partecipazione della parte al procedimento di mediazione e della eventuale applicazione delle sanzioni di cui all’art. 8, comma 4-bis, d.lgs 28/2010; della prova dell’avvenuto espletamento della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5, comma 2-bis, d.lgs 28 cit.; della individuazione del momento conclusivo del “primo incontro” e dell’inizio delle fasi successive, facendo scaturire l’obbligo in capo alle parti di corrispondere le somme dovute a titolo di indennità di mediazione.

 La nomina del mediatore, del co-mediatore e dell’esperto

L’assistenza delle parti nelle controversie in materia di responsabilità sanitaria e medica richiedono un particolare livello di competenza e professionalità in capo al mediatore, proprio per le ragioni innanzi dette attinenti alla difficoltà tecnico-giuridica delle questioni sottese, alla complessità soggettiva della lite, alla intensità e delicatezza della vicenda umana.

Il momento della designazione del mediatore, pertanto, è estremamente delicato, poiché su di esso l’organismo di mediazione gioca molta della propria credibilità e affidabilità. Ai sensi dell’art. 3, comma 2, d.lgs 28/2010, il regolamento di procedura deve in ogni caso garantire modalità di nomina che ne assicurino l'imparzialità, l’idoneità al corretto e sollecito espletamento dell'incarico, la competenza.

A questo fine, è necessario stabilire criteri trasparenti di individuazione e fare in modo che la nomina del mediatore sia ritagliata sulla specifica controversia. L’art. 7, comma 5, lett. e), dm 180/2010, come modif. dal dm 145/2011, stabilisce che il regolamento di procedura debba contenere «criteri abili per l'assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta» [32]. Disposizione questa, certamente apprezzabile nella sua prima parte, molto meno nella seconda, poiché anche nei casi di lauree “specializzanti”, infatti, è pur sempre necessaria l’acquisizione di un sapere professionale che prescinde dalla mera esperienza svolta durante il corso di studi.

Ad ogni modo, ciascun organismo può prevedere, ai sensi dell’art. 7, comma 2, lett. d) ed e), «la formazione di separati elenchi dei mediatori suddivisi per specializzazioni in materie giuridiche» e «che la mediazione svolta dall'organismo medesimo è limitata a specifiche materie, chiaramente individuate» (scelta che, sul piano della concorrenza e del mercato, può produrre effetti molto positivi per l’ente di mediazione, poiché sintomatica della sua serietà e della sua competenza).

Con riferimento alla tipologia di controversie in parola, tuttavia, appare molto difficile che il mediatore possegga tutti i requisiti necessari per la più efficiente e competente assistenza delle parti.

Si tratta, a ben vedere, di casi che richiedono «specifiche competenze tecniche» e che suggeriscono fortemente all’organismo di mediazione di «nominare uno o più mediatori ausiliari», ai sensi dell’art. 8, comma 1. Fermo restando che, al di là delle “specifiche competenze”, la presenza di un co-mediatore può rivelarsi particolarmente efficace anche in vista di una gestione multi-prospettica della vicenda sostanziale. Il co-mediatore non sostituisce il mediatore originariamente designato, ma gli si affianca, agevolandolo nella attività di assistenza delle parti (ed eventualmente nella formulazione della proposta conciliativa) e svolgendo, per questo motivo, un ruolo non a caso definito dalla norma “ausiliario”.

Nella maggior parte dei casi, peraltro, si farà ricorso alla perizia di un esperto che rediga una relazione tecnica in grado di facilitare sia gli sforzi delle parti di individuare il punto di equilibrio dei rispettivi interessi e posizioni, sia l’opera del mediatore nella formulazione della proposta conciliativa. Le parti non sono certamente obbligate, né il mediatore è titolare di alcun potere discrezionale in tal senso, come emerge dall’art. 8, comma 4, prima parte, d.lgs 28 cit. («Quando non può procedere ai sensi del comma 1, ultimo periodo, il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali»). Del resto, i costi della nomina sono interamente a carico delle parti e si aggiungono alle somme che comunque devono essere corrisposte a titolo di spese di avvio del procedimento e di indennità di mediazione. Tuttavia, è ben verosimile che ciò accada proprio per il peculiare oggetto delle controversie in materia di responsabilità sanitaria e medica, spesso ruotanti attorno a questioni rispetto alle quali il parere di un tecnico può essere risolutivo.

Il problema, semmai, riguarda l’utilizzabilità in sede processuale di tale parere in caso di fallimento del percorso di mediazione. Ora, mentre questa possibilità, con riferimento alla relazione tecnica del Ctu, è espressamente prevista dall’art. 696-bis cpc nella parte in cui rinvia all’art. 698 cpc (profilo questo, che sembra conferire all’accertamento tecnico preventivo una evidente maggiore utilità sul piano istruttorio: ma vds. infra § 13), nella mediazione parrebbe impedita dalla cogenza del principio di riservatezza “esterna” e, se non impedita, fortemente limitata nella sua efficacia, potendo essere valutato quel parere tecnico, come innanzi accennato, tutt’al più alla stregua di una prova atipica.

La cd. mediazione delegata

È ormai evidente a tutti – e non potrebbe essere altrimenti – che il momento in cui è celebrata la mediazione può essere determinante rispetto al conseguimento dell’obiettivo della conciliazione. Così, se prima del giudizio, in sede di “filtro” alla giurisdizione, i contendenti tendono a guardarsi con sospetto e con animosità dal momento che la lite è ancora nella fase di iniziale gestione, non tutte (anzi, verosimilmente, poche) le carte sono state giocate e le rispettive ed effettive posizioni non sono state effettivamente chiarite, sicché il compito del mediatore (ed eventualmente del co-mediatore), ove comunque la parte convocata aderisca all’invito della parte istante e si presenti, è quello di tentare l’instaurazione di un canale di comunicazione “genuino”, in corso di causa l’atteggiamento di chiusura o ritrosia può smussarsi alquanto in ragione della influenza esercitata dallo stato di avanzamento delle attività di allegazione, di contestazione e di prova. Nulla esclude, ad esempio, che il fallimento del tentativo preliminare al processo sia seguito da un accordo conciliativo in sede giudiziale o anche dinanzi ad un organismo di mediazione adito su ordine del giudice (più raramente su iniziativa delle parti), perché ciò che inizialmente non sembrava conveniente può diventarlo in seguito.

Da questo punto di vista, il giudice gioca un ruolo di enorme rilevanza soprattutto nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria e medica, dove è piuttosto frequente che la struttura sanitaria, affidandosi a valutazioni interne e preliminari circa l’assenza di una responsabilità propria e/o del medico [42], non partecipi al procedimento (rectius, al “primo incontro”) o, pur partecipando, si rifiuti di intraprendere un percorso collaborativo, rimettendo l’iniziativa della instaurazione del giudizio al soggetto danneggiato.

Orbene, a sua disposizione il giudice ha un armamentario piuttosto ricco e potenzialmente molto efficace, che spazia dalla cd. mediazione delegata, al tentativo di conciliazione ex artt. 185 e 185-bis cpc, alla possibilità di adottare modelli “misti” in osservanza di prassi consolidate.

Invero, l’ordinamento italiano offre una molteplicità di modelli, che riconoscono al giudice, a vario titolo e con diverse declinazioni, il potere di “intervenire” nell’ambito del percorso conciliativo.

È, infatti, possibile distinguere tra: a) conciliazione giudiziale in sede contenziosa; b) conciliazione delegata; c) conciliazione giudiziale in sede non contenziosa; d) mediazione delegata (o demandata o “sollecitata”) e, dopo il 2013, “disposta” o “ordinata”.

Nel primo e nel terzo caso, il giudice «tenta» o addirittura «provoca» la conciliazione delle parti.

Nel secondo e nel quarto caso, il giudice si limita ad individuare un altro soggetto al quale affidare il compito di tentare la conciliazione o comunque innanzi al quale sperimentare la via mediativa. Ciascuna di tali figure richiede l’applicazione di tecniche differenti, non soltanto perché diverso è il modo in cui si esplica il potere di “intervento” del giudice, ma anche per la diversità del contesto di riferimento, dell’approccio delle parti e della tipologia di controversia tipicamente risolvibile.

Nella mediazione delegata la valutazione è effettuata, eventualmente «anche in sede di giudizio di appello», sulla base dei parametri indicati dall’art. 5, comma 2, d.lgs 28 cit., consistenti nella «natura della causa», nello «stato dell’istruzione» e nel «comportamento delle parti».

Parametri questi, che possono anche sovrapporsi a quelli di cui all’art. 185-bis cpc [44] e che il giudice deve prendere in considerazione nel momento in cui ritenga la controversia ormai matura (non per essere decisa, bensì) per essere avviata su un percorso conciliativo o comunque, collaborativo e, dunque, si trovi di fronte alla alternativa se attivare uno strumento (la mediazione delegata) oppure l’altro (la conciliazione giudiziale).

In particolare, l’elemento della «natura della causa», che ricorre in entrambe le fattispecie, si riferisce alla possibilità che sia tentata una conciliazione. Viene in rilievo, a questo proposito, la necessità che si tratti di causa relativa a diritto disponibile, suscettibile cioè di conciliazione o transazione. Tale è certamente la controversia risarcitoria in materia sanitaria e medica.

Il parametro dello «stato dell’istruzione» è previsto espressamente dall’art. 5, comma 2 e comporta, invece, una valutazione da effettuare inevitabilmente caso per caso. Non è possibile, infatti, stabilire una volta per tutte se sia più opportuno ordinare alle parti di procedere alla mediazione prima o dopo la formulazione delle richieste istruttorie ovvero prima o dopo l’assunzione dei mezzi di prova eventualmente richiesti o di alcuni soltanto di questi. In ogni caso, nulla esclude che il giudice possa non avere alcun bisogno di attendere, ad esempio, il deposito delle memorie di cui all’art. 183, comma 6, cpc ovvero di disporre preliminarmente l’assunzione dei mezzi di prova, potendo, invece, valutare opportuno giocare subito la carta della mediazione (e ottenere il correlato effetto di sfoltire il proprio ruolo, in caso di conciliazione), spostando la gestione del conflitto in una sede in cui l’avvenuta assunzione dei mezzi di prova potrebbe addirittura essere controproducente.

L’ultimo parametro, il «comportamento delle parti», esige una valutazione relativa, da un lato, al comportamento processuale delle parti e alla precedente attività difensiva svolta; dall’altro, alla disponibilità delle parti stesse a raggiungere un accordo.

La previsione espressa dei tre criteri appena menzionati, non esclude affatto che, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 2, d.lgs 28 cit., si possano prendere in considerazione anche altre circostanze («tutte le circostanze del caso», secondo l’art. 5, comma 1, direttiva 2008/52/CE), quali, ad esempio, la tipologia del rapporto che lega le parti. Come anche non esclude la possibilità di disporre la mediazione in corso di causa alla concomitante presenza degli elementi contemplati dall’art. 185-bis cpc.

 La scelta per l’accertamento tecnico preventivo e la ratio del “filtro”

In alternativa, il danneggiato può scegliere di far ricorso allo strumento alternativo dell’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa disciplinato dall’art. 696-bis cpc. Uno strumento, è bene ribadirlo, che, come la mediazione di cui al d.lgs 28/2010, costituisce una condizione di procedibilità dell’azione di risarcimento dei danni nella materia della responsabilità sanitaria e medica; sicché, la libertà nella individuazione del “filtro” esperibile riconosciuta al danneggiato non toglie che, in ogni caso, egli sia obbligato ad effettuare una scelta.

Il tenore letterale e l’impianto complessivo della riforma, tuttavia, lasciano emergere con chiarezza che il legislatore predilige l’utilizzo dello strumento codicistico. Invero, nel disegno originario della riforma la mediazione non era neanche prevista e, infatti, è stata aggiunta tramite un emendamento nel corso dei lavori di approvazione della legge. Probabilmente nella fretta di provvedere, non si è anche provveduto ad integrare le disposizioni con ulteriori riferimenti e con un più preciso coordinamento con la disciplina del d.lgs 28/2010.

Orbene, il principale vantaggio offerto dall’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa si dovrebbe apprezzare sul piano istruttorio. In caso di naufragio del tentativo di conciliazione, la relazione del consulente, nominato dal giudice e non designato dall’organismo di mediazione o individuato dalle parti, può essere acquisita nel successivo eventuale processo.

Anche prima della riforma si faceva utilizzo di questo strumento in materia di responsabilità sanitaria e medica, ma in via facoltativa e, comunque, questo non avrebbe comportato necessariamente la possibilità di assorbire il procedimento di mediazione (olim, obbligatorio ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs 28 cit. nella suddetta materia), perché il punto era piuttosto controverso in giurisprudenza. Sta di fatto che il vantaggio cui si è fatto cenno non era sconosciuto alle parti, che avrebbero potuto intraprendere la via dell’art. 696-bis cpc (e poi quella della mediazione) proprio per godere di esso nel caso di mancato raggiungimento di un accordo conciliativo.

Con la previsione dell’obbligatorietà del “filtro” questa utilità è stata confermata e rafforzata.

Per di più il legislatore ha anche stabilito un necessario raccordo tra il procedimento in parola e il successivo processo, là dove ha imposto che quest’ultimo si svolga secondo le forme del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. cpc. Il raccordo non è casuale. Il rito sommario, infatti, anche se a cognizione piena secondo l’opinione prevalente, è comunque semplificato ed è destinato alle controversie che non presentino particolare complessità o che non richiedano una istruttoria molto approfondita. Lo svolgimento dell’accertamento tecnico in una fase anteriore al giudizio e la sua possibile acquisizione agli atti del processo a seguito del mancato raggiungimento dell’accordo di conciliazione, consentono di snellire di molto i tempi della trattazione e della decisione, che, dunque, non hanno bisogno di essere assoggettate al modello del rito ordinario di cognizione regolato dagli artt. 163 ss. cpc.

A ben vedere, questo schema apparentemente lineare, presenta alcuni punti critici, che saranno messi in evidenza nel prosieguo.

Va qui precisato, in via preliminare, che l’istituto di cui si va discorrendo vive di una “doppia anima”, poiché svolge tanto una funzione istruttoria, quanto una conciliativa, anche se quest’ultima sembra preponderante rispetto alla prima. Ciò si evince da diversi elementi, quali la rubrica della norma («consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite»); l’applicabilità «anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’articolo 696» e, quindi, in assenza dell’urgenza, il che sottrae alla consulenza tecnica la funzione cautelare di salvaguardia del futuro esercizio del diritto alla prova, propria dei mezzi di istruzione preventiva [49]; il tenore complessivo dell’art. 696-bis cpc; l’efficacia di titolo esecutivo conferita al verbale di conciliazione e l’ampliamento massimo delle sue potenzialità esecutive, alla stessa stregua di altre ipotesi in materia di conciliazione (ad esempio, proprio quella di cui al d.lgs 28/2010); l’agevolazione sul piano fiscale, consistente nell’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro, che rappresenta un incentivo alla conciliazione.

In sostanza, la consulenza tecnica preventiva è stata concepita innanzi tutto quale strumento per stimolare la conclusione di un accordo volto alla risoluzione della lite e per svolgere una fondamentale funzione deflativa del contenzioso.

Nella sua ordinaria applicazione il giudice è chiamato a stabilire, in base ad un giudizio prognostico e probabilistico, se, in base alla fattispecie prospettata, la nomina di un consulente tecnico in via preventiva possa servire a dirimere la controversia sul piano conciliativo. La valutazione della rilevanza della prova in relazione ad una determinata situazione sostanziale tutelanda non rappresenta l’aspetto preponderante. Per questo motivo, il giudice potrebbe disattendere la relativa istanza qualora le posizioni contrapposte delle parti fossero tali da far presumere che il designando consulente tecnico non sia in grado di pervenire a conclusioni né a proposte conciliative univoche. All’opposto, ma coerentemente, secondo una parte della giurisprudenza, non basterebbe l’atteggiamento di contestazione manifestato dalla controparte per respingere la richiesta di avvio del procedimento, poiché, ciononostante, il tentativo di conciliazione potrebbe sortire esito positivo grazie all’attività del consulente.

Se questi rilievi sono esatti, la funzione istruttoria opera in via residuale, cioè soltanto nella non auspicata ipotesi in cui la conciliazione non sia raggiunta.

Nell’assetto della riforma del 2017 la funzione conciliativa risulta esaltata, perché l’osservanza del procedimento è condizione di procedibilità, la cui ratio è, ora a maggior ragione, quella di risolvere la controversia senza una decisione giudiziale, anche a fini deflattivi. Ciò trova conferma, peraltro, in talune peculiarità procedimentali, quali la necessaria partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, nonché la previsione dell’obbligo per l’impresa di assicurazione convocata di formulare un’offerta transattiva.

Ciò non toglie che il legislatore si sia preoccupato anche dell’eventualità in cui l’accordo non sia raggiunto, perché, come anticipato, ha provveduto a disciplinare il raccordo con il successivo processo di cognizione.

Ad ogni modo, resta il fatto che l’istituto, di “giudiziale” presenta poco, poiché a tentare la conciliazione non è il giudice, bensì il consulente ed il giudice interviene solo nel momento della nomina del consulente stesso e del conferimento di efficacia esecutiva del verbale di conciliazione. Ne consegue che lo strumento doveva e deve continuare ad essere inquadrato più propriamente tra i rimedi alternativi al processo per la soluzione della controversia.

 

 Il ricorso introduttivo e la competenza

Ai sensi dell’art. 8, comma 1, legge 24/2017, «Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell'articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente» [53]. Il comma 2, inoltre, dispone che «La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento […]».

Da queste disposizioni si evince quanto segue.

In primo luogo, il procedimento deve svolgersi innanzi al “giudice civile”. Ciò dovrebbe comportare la sua inapplicabilità tutte le volte in cui l’azione civile sia stata esercitata in sede penale, come del resto stabilito per la mediazione dall’art. 5, comma 4, lett. g), d.lgs 28 cit. [54] (e per la negoziazione assistita dall’art. 3, dl 132 cit.).

In secondo luogo, l’atto introduttivo deve rivestire la forma del “ricorso” e va “presentato”. A questo proposito, l’art. 696-bis cpc nulla dispone; ciononostante, oltre che all’art. 8, comma 1, legge 24 cit., si può fare riferimento anche all’art. 693 cpc, che, pur non essendo richiamato espressamente, pare perfettamente coerente proprio nella parte in cui dispone che «L’istanza si propone con ricorso».

Non è richiesta l’allegazione del periculum in mora (come, peraltro, è confermato dal comma 1 dell’art. 696-bis, prima parte: «L'espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell'art. 696»), ma occorre indicare il fumus boni iuris (nonostante non si tratti di misura cautelare), sia per facilitare i termini della discussione in vista della eventuale conciliazione, sia per individuare la situazione sostanziale in relazione alla quale il giudice è chiamato a valutare la rilevanza della prova e, di conseguenza, l’esistenza della situazione stessa ai fini dell’interruzione della prescrizione, pur essendo soltanto eventuale il giudizio di merito.

In terzo luogo, l’istanza deve essere proposta “al giudice competente”; altra specificazione non v’è. In base al comma 3 dell’art. 696 cpc, cui fa rinvio il comma 1 dell’art. 696-bis cpc, il giudice competente dovrebbe essere il presidente del tribunale oppure il giudice di pace. Sennonché, il fatto che l’art. 8, comma 3, legge 24 cit. disponga che il successivo processo instaurato a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione debba obbligatoriamente seguire le forme di cui agli art. 702-bis ss. cpc, che a loro volta possono applicarsi soltanto innanzi al tribunale in composizione monocratica, potrebbe indurre a dubitare che il giudice di pace abbia competenza in materia (vds., sul punto, anche § 12). Né può sostenersi che ci si trovi al cospetto di una nuova ipotesi di operatività del procedimento sommario di cognizione ex lege innanzi al giudice di pace, alla stregua di quanto previsto dal d.lgs 150/2011, non soltanto perché nel caso in esame il rinvio agli art. 702-bis ss. cpc è integrale [56], ma anche perché manca una esplicita attribuzione ex lege.

Per quanto riguarda la competenza territoriale, deve condividersi la posizione di chi ha correttamente osservato che la definitiva e generalizzata qualificazione della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale, dovrebbe comportare, in ogni caso, l’applicabilità del criterio di competenza esclusivo del “consumatore”. Dunque, non potrebbe essere più ripetuta la distinzione operata in precedenza dalla giurisprudenza tra responsabilità della struttura sanitaria pubblica (per la quale si escludeva che il paziente potesse essere considerato alla stregua di un “consumatore”), e responsabilità della struttura sanitaria privata non convenzionata (per la quale, al contrario, l’unico foro applicabile era appunto quello riservato all’utente in quanto “consumatore”). Nulla cambia, invece, per le controversie tra medico e paziente, il cui foro continua ad essere rappresentato dal luogo di residenza del paziente.

 

 Il procedimento e l’attività del consulente tecnico medico legale

L’art. 696-bis cpc non detta tutte le norme per lo svolgimento del procedimento, ma si avvale del rinvio ad altre disposizioni, che, a loro volta, rinviano ad altre ancora, attraverso un faticoso gioco di incastri. Così, infatti, il comma 1 rimanda all’art. 696, comma 3, che rimanda agli art. 694 e 695, «in quanto applicabili», mentre l’ultimo comma richiama gli art. 191-197 cpc, «in quanto compatibili».

Pertanto, proposta l’istanza, il giudice designato fissa con decreto l’udienza e stabilisce il termine perentorio per la notificazione del decreto e del ricorso (attività questa, che produce l’effetto dell’interruzione della prescrizione, come, del resto, stabilito anche dall’art. 445-bis cpc, comma 3, cpc). Il giudice, assunte, quando occorre, sommarie informazioni, provvede in contraddittorio tra le parti, nominando il consulente tecnico con ordinanza non impugnabile, formulando i quesiti e fissando l'udienza nella quale il consulente deve comparire. L’ordinanza, contenente l’invito a comparire all’udienza fissata dal giudice, è notificata a cura del cancelliere al consulente tecnico. All’udienza il consulente presta giuramento e il giudice fissa la data per l’inizio delle operazioni peritali. Possono essere nominati più consulenti soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone.

Valgono, inoltre, le disposizioni in tema di astensione e ricusazione (con ulteriore indiretto rinvio agli art. 63 e 51 cpc, anche se elementi in tal senso possono trarsi anche dall’art. 15 legge 24 cit.), di rinnovazione delle indagini e di sostituzione del consulente, di richiesta di informazioni e chiarimenti da quest’ultimo alle parti ed eventualmente a terzi, di fissazione del termine per il deposito della relazione, ed in generale in tema di tutela del contraddittorio delle parti, comprese quelle relative alla possibilità di nominare consulenti di parte.

Non è chiaro se, nelle controversie risarcitorie in questione, l’istanza possa essere rigettata. Per un verso, sembrerebbe doversi dare risposta affermativa almeno tutte le volte in cui difetti un presupposto processuale oppure l’istanza sia del tutto inammissibile oppure ancora il contenuto della stessa sia palesemente abnorme [64]. Per un altro verso, sembrerebbe doversi dare risposta negativa, poiché l’esperimento del procedimento costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, quindi, ad essa deve necessariamente darsi corso.

A proposito della figura del consulente, va osservato quanto segue.

Con riferimento alla nomina, che – a differenza della nomina dell’esperto in mediazione – avviene, come si è detto, attraverso un provvedimento del giudice, vengono in rilievo gli artt. 8, comma 4, e 15 legge 24 cit. Quest’ultimo, in particolare, dispone che nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l'autorità giudiziaria affida l'espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi. La scelta deve avvenire tra gli iscritti negli albi dei consulenti di cui all'art 13 disp. att. cpc, e dei periti di cui all'art. 67 disp. att. cpc, i quali albi devono contenere l’indicazione e la documentazione attestante le specializzazioni degli iscritti esperti in medicina e devono essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, al fine di garantire, oltre a quella medico-legale, un'idonea e adeguata rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche riferite a tutte le professioni sanitarie, tra i quali scegliere per la nomina tenendo conto della disciplina interessata nel procedimento.

In particolare, poi, l’art. 15 dispone anche che i consulenti tecnici d'ufficio da nominare nell'ambito del procedimento ex art. 696-bis cpc, devono essere «in possesso di adeguate e comprovate competenze nell'ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi». Tale previsione è estremamente opportuna perché tende ad assicurare che il consulente non sia costretto ad improvvisare, ma sia, al contrario, a conoscenza delle tecniche necessarie per condurre nella maniera più efficace il tentativo di conciliazione. Quest’ultimo, infatti, è una cosa seria e finalmente di ciò ha preso atto il legislatore anche rispetto ad ambiti diversi dalla mediazione.

Infine, l’ultimo comma dell’art. 15 stabilisce che «l’incarico è conferito al collegio». Non sempre, però, la nomina di un collegio è opportuna, anzi a volte può essere più che sufficiente limitarsi a nominare un singolo tecnico [66]. Sanzioni per l’inosservanza di questo precetto, del resto, non ve ne sono.

Con riguardo alla attività del consulente, va evidenziato che il consulente non è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto dedotto, poiché tale accertamento, inteso nel senso di attività cognitiva relativa alla triade norma-fatto-effetto, spetta soltanto al giudice. Pertanto, il consulente, in primo luogo, deve procedere alla attività cognitivo-valutativa tecnica che gli è propria e, in secondo luogo, «ove possibile», deve tentare la conciliazione (la quale non costituisce attività di accertamento).

Inoltre, il ruolo del consulente tecnico nell’ambito del procedimento istruttorio anticipato e quello del mediatore presentano non secondari elementi di diversità.

Il consulente è per sua natura un esperto, dotato delle conoscenze specialistiche necessarie alla soluzione delle questioni tecniche rilevanti ai fini della definizione della controversia. Il mediatore, invece, è un soggetto chiamato ad assistere le parti nella ricerca di una soluzione consensuale della controversia, cui è affidato il compito di formulare una proposta conciliativa soltanto ove le parti lo richiedano espressamente in caso di mancato raggiungimento di un accordo e, comunque, in via residuale.

È vero che, proprio per effetto della previsione dell’art. 15 legge 24 cit., la divaricazione tra le due figure oggi tende a sfumare sotto l’aspetto dell’attività conciliativa, dal momento che anche il consulente deve possedere necessariamente capacità e competenze in materia di tecniche di conciliazione e mediazione e inoltre ad entrambi i soggetti è richiesto il possesso di requisiti di imparzialità e indipendenza.

Tuttavia, resta il fatto che:

- il consulente è chiamato a svolgere accertamenti ed indagini tecniche e a compiere valutazioni in merito ai fatti controversi che certamente non rientrano tra i compiti del mediatore. Inoltre, nella mediazione, ai fini della soluzione del conflitto, vengono in rilievo non tanto le pretese giuridiche prospettate dalle parti, ma gli interessi concreti ad esse sottostanti; il mediatore assiste le parti nel far emergere i reali bisogni sottesi alle rispettive posizioni e nel perseguire una soluzione conciliativa conveniente ad entrambe le parti, che assicuri la reciproca soddisfazione dei contrapposti interessi;

- al mediatore è imposto un generale obbligo di riservatezza che rappresenta un requisito qualificante la sua attività: generale, in quanto attinente sia al rapporto tra mediatore e parti (cd. riservatezza interna), sia al rapporto del mediatore con i soggetti estranei alla procedura (cd. riservatezza esterna) (vds. l’art. 9, d.lgs 28 cit.) [70]. Nessuna garanzia di riservatezza assiste, invece, il procedimento di cui all’art. 696-bis cpc;

- inoltre, mentre a norma dell’art. 10, comma 1, d.lgs 28 cit. le dichiarazioni o informazioni coperte dalla riservatezza sono inutilizzabili nel giudizio successivo all’insuccesso del tentativo di conciliazione ed avente il medesimo oggetto, salvo il consenso della parte che quelle dichiarazioni e informazioni ha reso; al contrario, gli esiti della consulenza tecnica espletata in sede preventiva, ove il tentativo di conciliazione fallisca e le parti non pervengano ad una composizione amichevole della lite, possono essere utilizzati nel successivo giudizio di merito.

 L’obbligo di partecipazione al procedimento e le sanzioni in caso di inosservanza

L’art. 8, comma 4, legge 24 cit. impone la necessaria partecipazione delle parti al procedimento di consulenza tecnica preventiva. Il tenore delle disposizioni ivi contenute denota con chiarezza l’intento del legislatore di favorire al massimo il raggiungimento di un accordo di conciliazione, sino al punto da adottare, nei confronti della parte che non manifesti un atteggiamento collaborativo, pesanti sanzioni.

In particolare, queste sono di diverso tipo e sono applicate all’esito del successivo giudizio di merito:

a) in caso di mancata partecipazione delle parti:

- condanna al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del giudizio;

- condanna al pagamento di una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione;

b) in caso di mancata formulazione dell’offerta di risarcimento del danno da parte dell’impresa di assicurazione ovvero di mancata comunicazione dei motivi contrari.

In ipotesi di sentenza favorevole al danneggiato, trasmissione della copia della sentenza da parte del giudice all'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni(IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.

Sotto questo aspetto, la consulenza tecnica preventiva si avvicina alla mediazione, poiché, come si è ricordato, anche in quella sede la mancata partecipazione determina conseguenze negative. Sennonché, si tratta di conseguenze diverse e legate a presupposti non del tutto coincidenti. In sede di consulenza tecnica, infatti, l’obbligo di cooperare si fa ancora più stringente per le parti. Se è vero che qui le ripercussioni dell’atteggiamento di chiusura non si manifestano sul piano istruttorio (nessun elemento probatorio il giudice è legittimato a ricavare dalla mancata partecipazione delle parti, neanche sub specie di argomento di prova ex art. 116, comma 2, cpc), il che è un bene, è anche vero che esse si rivelano eccessive sul piano economico.

Orbene, la sanzione sul piano della distribuzione delle spese non è di per sé peregrina, mentre lo diventa, acquisendo connotati di irragionevolezza [71], quando prescinde totalmente dalla soccombenza, poiché finisce per punire oltremodo la parte che sia risultata vittoriosa all’esito del processo e per premiare quella che abbia avuto torto, solo per il fatto di essere comparsa nel procedimento di accertamento tecnico preventivo. Senza contare che quest’ultima, proprio per questo motivo, può beneficiare della ulteriore somma disposta a suo favore equitativamente dal giudice, al di fuori di specifici parametri di determinazione, sulla falsariga di quanto disposto dall’art. 96, comma 3, cpc.

A proposito dell’obbligo di partecipazione, la giurisprudenza si è divisa sull’esatta individuazione dei soggetti sui quali tale obbligo incombe.

Un primo orientamento sostiene che siano parti necessarie tutti i soggetti che il ricorrente prospetti come obbligati, compreso l’esercente la professione sanitaria autore della condotta illecita, nonché quelli che possono partecipare all’eventuale giudizio di merito [73]. Il procedimento all’accertamento tecnico preventivo consente di perseguire più efficacemente la finalità conciliativa rispetto al procedimento di mediazione di cui al d.lgs 28/2010, nel quale «le compagnie di assicurazione raramente vengono coinvolte». Nel procedimento di cui all’art. 696-bis cpc, infatti, «il danneggiato sarà indotto a convenire […] tutti i potenziali soggetti passivi della azione risarcitoria dalla disciplina in tema di spese che è contenuta nel comma 4 dell’art. 8».

Un secondo orientamento, invece, afferma che l’individuazione delle parti chiamate a partecipare al procedimento di consulenza tecnica dipende dal tipo di azione di merito – fondata, volta a volta, sull’art. 7 o sull’art. 12 legge cit. – che il danneggiato intende esperire. Tuttavia, fino a quando non verrà approvato il decreto ministeriale di cui all’art. 10, comma 6, legge 24 cit., il danneggiato potrà convenire nel procedimento di cui all’art. 696-bis cpc soltanto la struttura sanitaria o il professionista sanitario.

Ora, tra i due, il primo orientamento è maggiormente in linea con la finalità dell’istituto in quanto volto ad ampliare il più possibile la platea dei soggetti chiamati a partecipare all’eventuale accordo di conciliazione e a comporre la controversia senza ulteriori strascichi. Tuttavia, il secondo sembra cogliere più precisamente il collegamento del procedimento con il giudizio di merito, poiché, senza contraddire la lettera e la ratio della norma, coniuga l’attività tecnico-istruttoria preliminare con l’oggetto del giudizio stesso.

I possibili esiti del procedimento

Il consulente tecnico, prima di depositare la relazione in cancelleria, tenta, ove possibile, la conciliazione tra le parti.

Si può osservare, a questo proposito, che, nonostante la lettera della legge, il tentativo di conciliazione è soltanto apparentemente facoltativo. Il consulente, in altri termini, deve tentare la conciliazione ove ve ne sia la possibilità, non avendo nessun potere discrezionale in tal senso. Resta semmai da verificare cosa significhi la formula “ove possibile”.

Orbene, l’indagine sulla possibilità dovrebbe tenere conto di due elementi: per un verso, la natura della causa (parametro questo, che, come si è visto, non diverge da quello previsto dall’art. 185-bis cpc per la conciliazione giudiziale, e dall’art. 5, comma 2, d.lgs 28 cit.); per un altro, il concreto atteggiamento assunto dalle parti prima del deposito della relazione in cancelleria, che potrebbe indurre il consulente a non tentare la conciliazione perché ritenuta del tutto inefficace.

Ciò non deve stupire. L’avveramento della condizione di procedibilità è assicurato dall’esperimento del procedimento, mentre non si può imporre di avviare una trattativa tra le parti se queste dimostrano di non avere alcuna intenzione di procedere in tal senso.

Ad ogni modo, ove la conciliazione venga tentata e riesca, si applicano i commi 2 e 3 dell’art. 696-bis cpc. Pertanto, si forma processo verbale di essa, al quale il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo, ai fini dell'espropriazione e dell'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale. Inoltre, ai sensi del comma 4, il processo verbale è esente dall'imposta di registro.

Se la conciliazione non riesce, si applica l’art. 8, comma 3, legge 24 cit., secondo cui «la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all'articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile».

Al fallimento del tentativo di conciliazione la norma citata equipara l’ipotesi in cui il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso. Anche l’art. 6, comma 1, d.lgs 28 cit. stabilisce che il procedimento di mediazione debba avere una durata massima (di tre mesi, quattro nella versione anteriore alla riforma del 2013); una previsione che sembra poter giustificarsi solo con riferimento alla condizione di procedibilità operante nel modello della mediazione obbligatoria di cui all’art. 5, comma 1-bis (e anche in quello della mediazione “disposta” dal giudice o delegata, di cui all’art. 5, comma 2), la quale, per non incorrere nel sospetto di incostituzionalità, deve necessariamente essere contingentata nei tempi [81], affinché non rechi un sacrificio di tempo tale da pregiudicare il diritto di azione e da comportare la violazione dell’art. 24, comma 1, Cost.

Premesso che in entrambi i casi l’effettiva durata del procedimento di mediazione non può essere sempre identica, ma è fisiologicamente destinata a variare a causa di fattori quali l’animosità dei litiganti, la pluralità delle parti in contesa, la complessità delle questioni tecniche da accertare e così via, la differenza è che, solo con riferimento alla consulenza tecnica preventiva, il termine, oltre ad essere doppio, è definito dalla legge come perentorio; questo pone a domandarsi quali siano le conseguenze della sua inosservanza e in quale misura divergano da quelle di cui all’art. 6, comma 1, cit. in materia di mediazione.

Con riferimento alla mediazione si è ipotizzato che, in astratto, il protrarsi del procedimento di mediazione per più di tre mesi dal deposito dell’istanza di mediazione presso l’organismo “competente” prescelto si rifletta sulla validità degli atti compiuti ovvero sulla applicabilità della disciplina contenuta nel d.lgs 28/2010, ovvero ancora sulla sola disciplina della condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Si è concluso che soltanto l’ultima delle tre conseguenze prospettate presenti elementi di ragionevolezza e che, dunque, le ripercussioni della eventuale prosecuzione del procedimento di mediazione dopo la scadenza del termine di tre mesi previsto dal comma 1 dell’art. 6 riguardino il meccanismo che regola la condizione di procedibilità, nel senso di ritenere espletata la condizione una volta decorso il termine e le parti libere di adire la via giudiziale.

Un discorso parzialmente differente deve essere svolto per la consulenza tecnica preventiva. L’art. 8, comma 3, stabilisce che la domanda è “procedibile” quando è depositato il ricorso per l’instaurazione del giudizio di merito entro il termine di 90 giorni dalla scadenza di quello di sei mesi (o dal deposito della relazione peritale); dunque, la procedibilità è legata alla tempestiva introduzione della causa, non all’osservanza del termine di sei mesi. In altri termini, anche se il procedimento non si è concluso entro tale termine, non significa di per sé che non possa continuare. Quello che determina realmente l’improcedibilità è il mancato rispetto del termine di 90 giorni che decorrono da un dies a quo variabile.

 

La necessità di instaurare il processo secondo il rito sommario di cognizione ex artt. 702-bis ss. cpc

La ratio del necessario raccordo tra consulenza tecnica preventiva e rito sommario di cognizione ex artt. 702 bis ss. cpc è stata già messa in evidenza. A quanto detto va aggiunto che il giudice chiamato ad occuparsi del merito della causa è quello stesso che ha trattato il procedimento preventivo, il quale, una volta adito, deve fissare l’udienza di comparizione delle parti.

causa civile mediazione 3Si possono ora indicare alcuni aspetti critici di questo meccanismo.

La proposizione della domanda giudiziale deve avvenire entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi stabilito per la durata del procedimento. Soltanto in tal caso, secondo l’art. 8, comma 3, legge 24 cit., sono fatti salvi gli effetti della domanda. Gli effetti cui la norma si riferisce non possono che essere quelli che già la presentazione del ricorso introduttivo del procedimento ex art. 696-bis cpc è idoneo a produrre e, dunque, senz’altro la interruzione della prescrizione. E poiché al procedimento in parola si attribuisce in qualche modo una natura (non cautelare, ma latamente) conservativa, si dovrebbe includere anche l’effetto sospensivo di cui all’art. 2945, comma 2 cc. In conclusione, il deposito del ricorso ex art. 702-bis cpc entro il termine di novanta giorni consente la salvezza non solo dell’interruzione della prescrizione (effetto comunque destinato a non perdersi, potendo l’istanza introduttiva della consulenza tecnica preventiva valere come atto di costituzione in mora ex art. 2943 cc), ma anche della sospensione dell’effetto interruttivo .

L’instaurazione del giudizio di merito, peraltro, può avvenire in maniera errata. In relazione a queste ipotesi ci si deve pure domandare se valga la salvezza degli effetti della domanda.

Indipendentemente dal caso in cui il deposito del ricorso giudiziale avvenga oltre il termine dei novanta giorni (caso le cui conseguenze sono già stabilite dalla legge e consistono nella perdita degli effetti), vengono in rilievo l’ipotesi di instaurazione del giudizio secondo il rito ordinario e quella in cui la domanda sia proposta innanzi al giudice di pace.

Con riferimento alla prima, la soluzione preferibile è quella che porta a considerare idonea a produrre la salvezza degli effetti della domanda anche la citazione notificata (erroneamente, al posto del deposito del ricorso), purché depositata entro il limite dei novanta giorni al fine di rispettare la lettera della norma, ma soprattutto in applicazione di un noto orientamento giurisprudenziale che afferma l’equivalenza della citazione al ricorso e viceversa, tutte le volte in cui siano comunque rispettati i termini che la legge pone per lo svolgimento delle attività che, in base al rito di volta in volta previsto, sono necessarie ai fini dell’instaurazione del processo (di primo grado o di appello) o della sua riassunzione. In ogni caso, resterebbe fermo il potere del giudice adito con le forme del rito ordinario, di disporre la conversione ai sensi dell’art. 183-bis cpc.

Con riferimento alla seconda, deve ritenersi che il giudice di pace non possa essere adito con il rito sommario di cognizione, poiché il combinato degli art. 702-bis, comma 1 e 702-ter, comma 1 cpc, che riservano tale rito al tribunale in composizione monocratica, non lo consentono; né, peraltro, possono ritenersi applicabili le disposizioni di cui al d.lgs 150/2011 che pure prevedono l’applicabilità del rito sommario innanzi al giudice di pace, in quanto si tratta di ipotesi in cui, accanto all’utilizzo del rito, è anche prevista espressamente la competenza del giudice di pace. Invero, il dubbio innanzi prospettato circa l’insussistenza della competenza del giudice di pace (vds. supra § 8), potrebbe essere superato soltanto se si affermasse che quella dell’art. 8, comma 3, legge 24 cit., nella parte in cui rinvia agli artt. 702-bis ss. cpc, costituisce una norma sul rito, non sulla competenza; ne discenderebbe la possibilità di ritenere, sia pure con una accettabile forzatura della lettera della norma, che l’instaurazione del giudizio debba avvenire in tale caso con atto di citazione, al fine della salvezza degli effetti della domanda.

 L’acquisizione in giudizio della relazione tecnica

Una volta instaurato correttamente il processo, «ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito» (art. 696-bis, comma 5, cpc).

Stando al tenore letterale della norma, occorrerebbe una esplicita istanza di parte, che, quindi, svolge la funzione di veicolo necessario e sufficiente per l’ingresso dei risultati della consulenza nel processo.

La disposizione collide con quanto disposto dall’art. 698, commi 2 e 3 cpc, secondo cui, rispettivamente, «l'assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza, né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito» e «i processi verbali delle prove non possono essere prodotti, né richiamati, né riprodotti in copia nel giudizio di merito, prima che i mezzi di prova siano stati dichiarati ammissibili nel giudizio stesso». Tali disposizioni non sono richiamate dall’art. 696-bis cpc; ciononostante, secondo la giurisprudenza, esse sono applicabili.

Tale orientamento non dovrebbe potere essere ripetuto pedissequamente nella materia della responsabilità sanitaria. Infatti, se si affermasse che l’istanza di acquisizione in giudizio della relazione peritale costituisca mero atto di impulso, necessario sì (dal momento che, in mancanza, l’acquisizione non potrebbe avvenire in maniera automatica), ma non sufficiente a ritenere utilizzabile la relazione prima che il giudice ne valuti l’ammissibilità, si finirebbe per svalutare del tutto la ratio della riforma, che, invece, fa leva proprio sul vantaggio istruttorio costituito dalla trasponibilità in sede giudiziale dei risultati tecnici del procedimento preventivo.

Infine, va sottolineato che il mancato richiamo dell’art. 200 cpc relativo all’ipotesi di fallimento del tentativo di conciliazione, comporta che le dichiarazioni delle parti riportate dal consulente nella relazione non possano essere valutate dal giudice a norma dell’art. 116, comma 2 cpc.

 L’inosservanza della condizione di procedibilità: conseguenze

Ai sensi dell’art. 8, comma 2, legge 24 cit., «L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui all'articolo 696-bis del codice di procedura civile non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell'istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento».

Facendo ricorso ad una tecnica già sperimentata in altri (e analoghi) contesti (in particolare, quello di cui all’art. 445-bis cpc, in materia di controversie di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222), il legislatore disciplina il caso in cui venga proposta la domanda giudiziale senza il previo esperimento del “filtro” di procedibilità. Pertanto, instaurato il processo senza l’osservanza della condizione (di nessuna delle due condizioni stabilite come obbligatorie) e rilevata d’ufficio (o eccepita dal convenuto) l’omissione entro la prima udienza, il giudice si trova di fronte alla necessità di assegnare alle parti il termine di quindici giorni – che, si badi, non è qualificato come perentorio – per lo svolgimento dell’attività omessa. Sennonché, il meccanismo è riferito normativamente al solo procedimento di consulenza tecnica preventiva; il che sembra il frutto di una svista, dal momento che qui l’esperimento del procedimento non è previsto in via esclusiva, bensì in alternativa al quello di mediazione. Dunque, andando oltre la lettera della legge, si dovrebbe correttamente affermare che il termine possa alternativamente essere assegnato per la presentazione dell’istanza ex art. 696-bis cpc innanzi allo stesso giudice oppure per la presentazione dell’istanza di mediazione ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs 28/2010 innanzi ad un organismo di mediazione territorialmente “competente”. Altrimenti opinando, l’obbligo di esperimento del procedimento di mediazione rischierebbe di essere sistematicamente aggirato.

Invece, nell’ipotesi in cui il “filtro” sia stato già avviato, ma non si sia concluso alla data della prima udienza, l’invito del giudice rivolto alle parti per il suo completamento non potrebbe che riguardare il procedimento già pendente in quanto già scelto dall’istante. Una volta concluso, evidentemente senza successo, il tentativo di conciliazione, il processo può riprendere il suo iter. Non c’è alcuna attività di riassunzione da compiere perché il processo non viene né interrotto né sospeso a seguito del rilievo dell’omissione. A ben vedere, anche in questo caso ci si trova al cospetto di una svista del legislatore, che ha dimenticato di aggiungere che, nell’assegnare il termine alle parti, deve anche indicare un’udienza successiva alla prima nella quale verificare se la condizione è stata espletata oppure no. Orbene, sembra ragionevole ritenere che, in analogia con quanto disposto dall’art. 5, comma 1-bis cit., egli debba comunque indicare tale udienza, con la sola accortezza di individuare una data che, a seconda dei casi, sia superiore ai tre mesi (nel caso in cui il “filtro” prescelto sia la mediazione) oppure superiore ai sei mesi (nel caso in cui il “filtro” prescelto sia la consulenza tecnica preventiva).

 

Una volta divenuta procedibile la domanda, deve ritenersi che, essendo già stato promosso il processo secondo determinate forme (quelle del rito ordinario di cognizione ovvero quelle del rito sommario di cognizione), con queste stesse forme esso dovrà continuare. La regola della proposizione della causa secondo le disposizione di cui agli artt. 702-bis ss. cpc, infatti, vale soltanto nell’ipotesi fisiologica in cui si sia scelto e sia stato preliminarmente esperito l’accertamento tecnico preventivo ex artt. 696-bis ss. cpc.

 Gli obblighi di comunicazione all’esercente la professione sanitaria

A conclusione di questa prima parte del presente lavoro, va richiamata l’attenzione su una disposizione di non trascurabile rilevanza.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1, legge 24 cit., le strutture sanitarie e le imprese di assicurazione hanno l’obbligo di comunicare all’esercente la professione sanitaria sia l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte, sia l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio.

Il contenuto della disposizione, in primo luogo, incide sul problema della individuazione dei soggetti chiamati a partecipare alla procedura stragiudiziale (sia essa la mediazione ovvero la consulenza tecnica preventiva); in secondo luogo, porta ad interrogarsi circa la natura e gli effetti dell’invito rivolto al professionista; in terzo luogo, riguarda i presupposti di ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa, di cui all’art. 9.

Sotto il primo profilo, valga quanto già innanzi detto, cui si può aggiungere che la previsione di un mero invito alla partecipazione dovrebbe confermare che la partecipazione più ampia è un fatto di opportunità e non di necessità. In mancanza, si ricorderà, l’azione di rivalsa può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall'avvenuto pagamento (art. 9, comma 2, legge 24 cit.). Inoltre, la transazione raggiunta in assenza del professionista non è a lui opponibile nello stesso giudizio di rivalsa (art. 9, comma 4, legge 24 cit.).

Sotto il secondo profilo, non sembra sussistano dubbi sul fatto che l’invito valga come mera denuntiatio litis, non come chiamata in causa con proposizione di apposita domanda.

Sotto il terzo profilo, l’esercizio tempestivo e completo dell’invito rivolto al professionista rientra tra i presupposti per l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui all’art. 9. L’indicazione di precise forme per l’inoltro dell’invito non dovrebbe escludere che, ove il professionista partecipi ugualmente al procedimento o si costituisca in giudizio, l’eventuale inosservanza di esse venga sanata.

 

IL SISTEMA DI AZIONI E LA DISTRIBUZIONE DELL'ONERE DELLA PROVA 

 Il quadro delle azioni esperibili

Oltre al sistema di condizioni di cui si è innanzi detto, la legge 24/2017 prevede un sistema di azioni di diversa natura e con diverso oggetto, esperibili a seguito del verificarsi dell’episodio causativo del danno.

In particolare, il soggetto leso (o i suoi congiunti, in caso di morte) può proporre domanda giudiziale volta ad ottenere il risarcimento dei danni:

a)  nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, «nell’adempimento della propria obbligazione», si sia avvalsa «dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa», la quale «risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose» (vds. art. 7, comma 1). Disposizione questa, che «si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina» (vds. art. 7, comma 2);

b)  nei confronti dell’«esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2», il quale «risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile» (vds. art. 7, comma 3);

c) nei confronti del medesimo esercente nell’ipotesi in cui «abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente» (vds. art. 7, comma 3);

d) nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura ovvero dell’esercente, «entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione»].

Prima della proposizione della domanda risarcitoria, quale che sia il soggetto convenuto in giudizio e il titolo (contrattuale o extracontrattuale) della responsabilità invocato, è obbligatorio esperire uno dei “filtri” di procedibilità su visti (procedimento di mediazione oppure accertamento tecnico preventivo) a fini conciliativi.

Il novero delle azioni proponibili si arricchisce, poi, delle seguenti:

e) giudizio di rivalsa promosso dall’impresa di assicurazione contro l’esercente la professione sanitaria in caso di dolo o colpa grave (vds. art. 9, comma 1);

f) giudizio di responsabilità amministrativa, proponibile per dolo o colpa grave, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, da parte del pubblico ministero presso la Corte dei conti in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica (vds. l’art. 9, comma 5);

g) giudizio di regresso promosso dal Fondo di garanzia – istituito, nello stato di previsione del Ministero della salute per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, alimentato dal versamento di un contributo annuale dovuto dalle imprese autorizzate all’esercizio delle assicurazioni per la responsabilità civile per i danni causati da responsabilità sanitaria – nei confronti del responsabile del sinistro.

Rispetto a questo secondo gruppo di azioni, non v’è alcuna necessità di promuovere il tentativo di conciliazione in via preliminare, poiché l’art. 8 legge 24 cit. si riferisce alla sola «azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria».

In questa sede, ci si occuperà esclusivamente della incidenza della riforma sulla distribuzione e sul contenuto dell’onere della prova nelle prime due azioni rientranti nel primo gruppo, vale a dire quella contrattuale che il danneggiato può promuovere nei confronti della struttura sanitaria oppure del medico con il quale abbia eventualmente stipulato uno specifico contratto di prestazione d’opera professionale, nonché quella che il paziente può promuovere, sempre nei confronti del medico, ma a titolo di responsabilità extracontrattuale.

L’azione (contrattuale) nei confronti della struttura sanitaria e quella (extra-contrattuale) nei confronti del medico

Con riferimento al medico dipendente, una storica pronuncia del 1999 [98], inserendosi nel solco di un vivace contrasto, consacrò il titolo della responsabilità riportandolo nell’alveo di quella contrattuale, ma valorizzando la assoluta peculiarità del rapporto da questo instaurato con il paziente sul piano non solo professionale, ma anche sociale. E infatti, per la Cassazione, la natura contrattuale doveva affermarsi non già per l'esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì in virtù di un rapporto di fatto originato dal «contatto» sociale, «una obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto», imposta al medico dall’arte che professa.

Anche la responsabilità della struttura sanitaria, da ben prima dell’avvento delle due principali riforme degli ultimi anni (legge 189/2012 e legge 24/2017), è stata pressoché pacificamente ricondotta all’inadempimento di una obbligazione contrattuale, sia pure del tutto autonoma da quella del professionista.

In particolare, secondo la Cassazione il complesso rapporto che si instaura tra la struttura e il paziente, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo scelga al di fuori della struttura sanitaria il medico curante, non si esaurisce nella mera fornitura di prestazioni di natura alberghiera (somministrazione di vitto e alloggio), ma consiste nella messa a disposizione del personale medico ausiliario e di quello paramedico nonché nell'apprestamento dei medicinali e di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicanze; è perciò configurabile una responsabilità autonoma e diretta della casa di cura ove il danno subìto dal paziente risulti causalmente riconducibile ad una inadempienza alle obbligazioni ad essa facenti carico [100]. Tale rapporto assume la forma di un contratto a prestazioni corrispettive che prende il nome di contratto «di spedalità» o di «assistenza sanitaria» e che produce effetti protettivi nei confronti del terzo. Ne consegue che la responsabilità della struttura nei confronti del paziente rientra nell’alveo dell'art. 1218 cc, ma anche in quello dell'art. 1228 cc, poiché ricomprende l’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche «di fiducia» dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.

Il quadro appena delineato sia pur per brevi cenni, era stato messo in discussione dall’improvvida previsione contenuta nella legge 189/2012, di conversione del dl 158/2012, conv. con modif. in legge 189/2012 (cd. legge Balduzzi), il cui art. 3, comma 1 aveva ambiguamente stabilito che: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». L’ambiguità del dettato normativo si coglieva sotto due aspetti principali: per un verso, il riferimento all’art. 2043 cc, non sufficientemente chiaro nel senso di una riqualificazione in termini extracontrattuali della responsabilità del professionista (come sembrava suggerire la finalità generale della riforma, volta a ridimensionare gli effetti negativi del progressivo dilagare del fenomeno cd. della medicina difensiva) oppure nel senso di una mera conferma della clausola generale del neminem laedere con riguardo al diritto umano inviolabile alla salute e dell’obbligo risarcitorio conseguente alla sua lesione; per un altro verso, il rinvio alle “linee guida” e alle “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”, insufficiente tanto a definire un criterio di vera e propria depenalizzazione della colpa lieve del medico quanto a delineare una condotta rilevante solo sul piano della quantificazione risarcitoria [105].

La riforma del 2017 ha tentato di riportare ordine nel sistema della responsabilità in materia sanitaria e medica, istituendo un cd. “doppio binario”, che, come già detto, vede la struttura sanitaria rispondere a titolo contrattuale ex art. 1218 e 1228 cc ed il professionista a titolo extracontrattuale ex art. 2043 cc. Un assetto, questo, che ha tutta l’aria di un deciso ritorno a un remoto passato e che sembra mettere nel cassetto la tesi del “contatto sociale”. L’esercente in questo modo si vede, almeno sulla carta, più protetto, date le maggiori difficoltà sul piano probatorio connesse alla azione extracontrattuale eventualmente promossa nei suoi confronti dal paziente. Peraltro, anche sul piano penale si coglie l’effetto deterrente del nuovo regime, dovendosi ormai ritenere egli non punibile – sebbene sotto il solo profilo della imperizia – ricorrendo le condizioni previste dal nuovo art. 590-sexies cp. (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle stesse linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell'applicazione delle stesse.

Il peso sembra essere stato riversato tutto (o quasi) sulla struttura sanitaria e sulle imprese di assicurazione, anche per via della previsione dell’azione diretta esperibile nei loro confronti. Tuttavia, non si può omettere di considerare che la riforma non ha davvero tentato di tagliare fuori il professionista. Meccanismi “compensativi”, quali la previsione espressa dell’azione di rivalsa (per quanto legata a rigidi presupposti), dell’azione di responsabilità amministrativa, nonché del litisconsorzio necessario nelle ipotesi di esercizio dell’azione diretta, contribuiscono a riportare il medico in pista.

Oneri di allegazione e prova nell’azione di responsabilità contrattuale

L’inquadramento della condotta nell’alveo della responsabilità contrattuale ovvero in quello della responsabilità extracontrattuale comporta conseguenze di non poco momento per ciò che concerne la distribuzione dell’onere probatorio. Basti pensare che in un caso la «assenza di colpa» integra un fatto impeditivo, che spetta al convenuto provare (vds. art. 1218 cc), nell’altro la «colpa» funziona come fatto costitutivo il cui onere è a carico dell’attore (vds. art. 2043 cc). Nel campo della responsabilità sanitaria e medica questo schema apparentemente semplice (e con esso l’applicazione concreta della regola di giudizio di cui all’art. 2697 cc) è stato oggetto di molteplici interventi giurisprudenziali in concomitanza con l’evoluzione del dibattito circa la natura della responsabilità.

Un primo fondamentale arresto si è dovuto ad un pronuncia del 1978, che introdusse la distinzione tra interventi di facile e interventi di difficile esecuzione, scaricando solo in quest’ultimo caso sul paziente l’onere di provare l’errore del professionista ed affidando, invece, all’operatività di un meccanismo presuntivo (fondato sul principio di tradizione anglosassone cd. res ipsa loquitur, a sua volta non lontano da quello di matrice tedesca cd. della prova prima facie) la dimostrazione dell’inadeguata e negligente esecuzione della prestazione professionale, con conseguente onere in capo al professionista di dimostrare l’ascrivibilità del peggioramento delle condizioni di salute ad un evento imprevedibile.

Tale orientamento è rimasto in voga fino al 2004, anche se le basi del cambiamento erano già state poste qualche anno prima in ambito diverso da quello in esame.

Nel 2001, infatti, le sezioni unite della Cassazione – nel risolvere un contrasto in materia di inadempimento contrattuale, tra un orientamento, maggioritario, che diversificava il regime probatorio secondo che il creditore agisse per l’adempimento (ritenendo, nel qual caso, sufficiente la prova della fonte del diritto vantato) ovvero per la risoluzione (affermando, nel qual caso, necessaria la prova non solo del titolo, ma anche dell’inadempimento, integrante anch’esso fatto costitutivo della pretesa) ed un altro orientamento, minoritario, tendente ad unificare il regime probatorio gravante sul creditore, senza distinguere tra azione di adempimento, risoluzione o azione risarcitoria (sufficiente essendo, in ogni caso, la prova della fonte dell’obbligazione asseritamente inadempiuta, spettando, invece, al debitore provare il fatto estintivo dell’avvenuto adempimento) – avevano affermato che il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento.

Poco tempo dopo la Cassazione applicò tali principi in tema di responsabilità contrattuale del professionista medico responsabile di una diagnosi errata, integrante di per sé l’inadempimento, in presenza di un quadro clinico complesso per la gravità della patologia e le precarie condizioni di salute del paziente, stabilendo che la prova della mancanza di colpa per la morte del paziente deve essere fornita dal debitore della prestazione, e dell’eventuale situazione di incertezza sulla stessa si deve giovare il creditore e non il debitore.

E poi ancora, in un altro caso, ribadì che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e/o il «contatto» con il professionista e allegare l’inadempimento di quest’ultimo, che consiste nell’aggravamento della situazione patologica o nell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico dell’obbligato – il sanitario ovvero la struttura presso cui egli opera – la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

Se in queste e nelle immediatamente successive applicazioni giurisprudenziali, al soggetto convenuto veniva addebitato – piuttosto ambiguamente – il duplice onere di dimostrare la propria diligenza e l’imprevedibilità dell’evento, tuttavia, a carico del soggetto danneggiato si continuò per qualche tempo ad addebitare la prova del nesso causale tra evento e danno (vale a dire la dimostrazione dell’inserimento dell’esecuzione del rapporto curativo, articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, nella serie causale che ha condotto all’evento di preteso danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato).

Sennonché, di lì a poco, nel 2008, un ulteriore arresto delle Sezioni unite della Cassazione contribuì ad alleggerire ulteriormente l’onere probatorio del paziente, confermando che a quest’ultimo spettasse provare soltanto il contratto relativo alla prestazione sanitaria e il danno, mentre ai debitori l’insussistenza dell’inadempimento, aggiungendo anche a carico di questi ultimi il compito di dimostrare, in caso di sussistenza dell’inadempimento, l’assenza o l’irrilevanza del nesso causale.

Questo orientamento è stato ribadito, non senza qualche passo indietro, negli anni successivi, a volte con un certo irrigidimento.

Sta di fatto che l’attenzione si è spostata dal contenuto degli oneri probatori a quello degli oneri di allegazione, richiedendosi da parte di una certa giurisprudenza di merito una precisa e dettagliata indicazione nell’atto introduttivo dei profili concreti della colpa medica posti a fondamento dell’azione risarcitoria.

La Cassazione, però, ha meglio definito i limiti dell’attività assertiva richiesta, affermando che l’onere dell’attore non si spinge fino alla necessità di enucleare e indicare specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non-professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario (quali, ad esempio, l’omessa informazione sulle possibili conseguenze dell’intervento, l’adozione di tecniche non sperimentate in sede di protocolli ufficiali, la mancata conoscenza dell’evoluzione della metodica interventistica, la negligenza – intesa come violazione di regole sociali e non solo come mera disattenzione – l’imprudenza – intesa come violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività – ed imperizia – intesa come violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non più solo come insufficiente attitudine all’esercizio di arti e professioni).

Inoltre, partendo da tali premesse, si ritiene che il giudice non sia rigidamente vincolato alle iniziali prospettazioni dell'attore, stante la inesigibilità della individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all'esito dell'istruttoria e dell’espletamento di una Ctu, potendo pertanto accogliere la domanda nei confronti della struttura in base al concreto riscontro di profili di responsabilità diversi da quelli in origine ipotizzati, senza violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

L’applicazione del principio della vicinanza della prova e il ridimensionamento del “doppio binario” sul piano probatorio

Il regime di favore nei confronti del paziente applicato dalla giurisprudenza, particolarmente negli ultimi dieci anni, sul piano assertivo e probatorio, si fonda sull’accoglimento del principio di vicinanza o prossimità o disponibilità o riferibilità della prova, che, a sua volta, risponde a un criterio di “ragionevolezza”.

Di esso è già espressione l’orientamento inaugurato nel 2001 in materia di inadempimento contrattuale: è ragionevole che la prova di determinati fatti sia rimessa al soggetto che ha maggiori probabilità di fornirla, in quanto più “vicino” alle fonti della prova stessa (applicato all’obbligazione contrattuale: è più facile al debitore dimostrare il fatto positivo di avere adempiuto che non al creditore di dimostrare l'opposto fatto negativo). Al criterio di ragionevolezza, peraltro, si aggiunge un fondamento ulteriore, rinvenibile nell’art. 24, comma 1, Cost., che riferisce al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio.

Di tale principio le applicazioni sono molteplici. Tuttavia, le giustificazioni della sua operatività non sempre coincidono.

A volte, infatti, il punto di partenza per determinare la distribuzione dell’onere probatorio è rappresentato dalla ricostruzione della fattispecie sostanziale controversa, che il giudice procede ad effettuare tutte le volte in cui non vi abbia provveduto il legislatore. La ricostruzione permette di discriminare i fatti costitutivi da quelli impeditivi, la cui genesi è cronologicamente contestuale e, per questo motivo, difficilmente perscrutabile.

Altre volte, la vicinanza della prova viene invocata per addurre un temperamento alla rigida applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 cc.

Altre volte ancora, il principio si sovrappone, sino quasi a confondersi, con quelli (ai quale si è innanzi fatto cenno) della prova prima facie o della res ipsa loquitur, che, in ultima analisi, rispondono a cd. presunzioni giurisprudenziali. In sostanza, si ammette che il creditore possa limitarsi ad allegare l’inadempimento poiché si presume «normale», in senso probabilistico, la veridicità della sua affermazione; di conseguenza, si rimette al convenuto l’onere di fornire una prova (detta «liberatoria») che scardini questa presunzione.

 

In materia di responsabilità sanitaria, l’applicazione del principio in parola è riscontrabile proprio in quella giurisprudenza che, a partire dal 2004 e poi, soprattutto, dal 2008, ha affermato che il paziente debba limitarsi ad allegare (oltre alla fonte contrattuale, anche) l’inadempimento della controparte, usufruendo della presunzione della sussistenza del nesso eziologico tra la patologia e il pregiudizio subito. In particolare, un riferimento espresso si ritrova nei casi di difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari, la quale, si afferma, non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni qualora sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato; tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente.

La rilevanza, sul piano probatorio, dell’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche

Fermo quanto innanzi detto, la distribuzione degli oneri probatori, tuttavia, non può non tenere conto della rilevanza definitivamente acquisita dalle cd. linee guida e dalle cd. bune pratiche clinico-assistenziali nella valutazione della imperizia imputata dal paziente al professionista con la richiesta risarcitoria.

Ad esse già si riferiva l’art. 3, comma 1, dl 189/2012 cit., che, però, non aveva precisato quale fosse e se vi fosse una fonte ufficiale alla quale attingere per la loro individuazione. Ciò ha favorito il moltiplicarsi delle “fonti”, non tutte riconosciute dalla comunità scientifica e/o dal Ministero. In particolare, la disposizione stabiliva che dalla loro osservanza scaturisse la non punibilità dell’esercente la professione sanitaria per colpa lieve e che, nella determinazione del risarcimento del danno, il giudice tenesse debitamente conto della condotta osservante.

Anche la legge 24 cit., che ha abrogato l’art. 3, comma 1, cit., ha riproposto le linee guida come criterio di valutazione della responsabilità. Lo ha fatto, tuttavia, in maniera più strutturata.

In primo luogo, l’art. 3 prevede l’istituzione − presso l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) – dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, con decreto del Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. L'Osservatorio acquisisce dai Centri per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, i dati regionali relativi ai rischi ed eventi avversi nonché alle cause, all'entità, alla frequenza e all'onere finanziario del contenzioso e, anche mediante la predisposizione, con l'ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, di linee di indirizzo, individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure nonché per la formazione e l'aggiornamento del personale esercente le professioni sanitarie (vds. il primo e il secondo comma).

In data 29 settembre 2017 il Ministero della salute ha provveduto a rendere operativa questa disposizione.

In secondo luogo, ai sensi dell’art. 5, comma 1, gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, «si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Il comma 3 poi stabilisce che «Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti di cui al comma 1 sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (Snlg), il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con la procedura di cui all'articolo 1, comma 28, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. L'Istituto superiore di sanità pubblica nel proprio sito internet le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal Snlg, previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni». 

Per tali finalità, con dm 2 agosto 2017 è stato istituito presso il Ministero della salute l'elenco delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie e sono stati stabiliti i requisiti per l’iscrizione nell’elenco.

Successivamente, con dm 27 febbraio 2018 è stato istituito il Sistema nazionale linee guida (Snlg).

In terzo luogo, come già accennato, ai sensi del nuovo art. 590-sexies, comma 2 cp, «Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

In quarto luogo, l’art. 7, comma 3, dispone che «L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 della presente legge e dell'articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall'articolo 6 della presente legge».

Da tale quadro emerge l’istituzionalizzazione delle linee guida che, pur continuando a rappresentare “raccomandazioni” suscettibili di continuo aggiornamento (in quanto tali, espressione di soft law), incidono per esplicita previsione normativa sulla valutazione della condotta del professionista ai fini penali e sulla misura del risarcimento del danno.

Tale attitudine è destinata a riverberarsi, tuttavia, anche sul contenuto degli oneri probatori almeno allorquando sia fatta valere l’imperizia del professionista. Il tenore letterale dell’art. 5, comma 1, sembra piuttosto chiaro nell’individuare un preciso dovere in capo agli esercenti circa l’osservanza delle stesse («si attengono»). Il che si giustifica con l’utilità e l’autorevolezza delle «raccomandazioni» contenute nelle linee guida. Allo stesso tempo, deve riconoscersi il dovere degli esercenti di discostarsi dalle linee guida ove le specificità del caso concreto lo impongano. Esiste, peraltro, un ulteriore dovere per i professionisti, che, in via sussidiaria rispetto al primo, consiste nel seguire le buone pratiche clinico-assistenziali in mancanza di linee guida corrispondenti o adeguate al caso concreto.

Come è stato messo in evidenza, è estremamente importante che le linee guida e le buone pratiche siano individuate prima dell’instaurazione del processo. La massima chiarezza in tal senso consente, infatti, di articolare in maniera meno lacunosa e per questo strategicamente più forte, gli scritti difensivi in punto di allegazioni e di prova. Altrettanto evidente, quindi, è l’importanza del ruolo che a questo fine può essere svolto dai consulenti tecnici. Sotto questo profilo, l’esperimento dell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis cpc si rivela determinante per la selezione delle linee e delle best practices confacenti al caso e così l’acquisizione in giudizio della relazione peritale ove fallisca il tentativo di conciliazione.

Ora, gli oneri di allegazione e prova con riguardo a tali “fonti” (certamente non del diritto) sono destinati inevitabilmente a variare a seconda del tipo di azione promossa dal paziente.

Infatti, nel giudizio di risarcimento promosso a titolo di responsabilità contrattuale, dove il paziente dovrebbe limitarsi ad allegare l’inadempimento, all’esercente dovrebbe spettare la dimostrazione dell’assenza di colpa, avendo egli tenuto una condotta corrispondente alle linee guida (o alle buone pratiche) stabilite in relazione al caso concreto oppure la necessità di discostarsene completamente a causa della specificità del caso concreto.

Invece, nel giudizio di risarcimento del danno promosso a titolo di responsabilità extracontrattuale, il paziente dovrebbe allegare e provare gli elementi della fattispecie e, quindi, anche la condotta che il professionista stesso avrebbe dovuto correttamente tenere in base alle linee guida tipizzate o alle buone pratiche clinico-assistenziali.

Ciò detto, alcune osservazioni paiono opportune.

In primo luogo, la rilevanza delle linee guida (e, in seconda battuta, alle buone pratiche) si dovrebbe cogliere, stando alla lettera della legge, soltanto allorquando sia fatta valere l’imperizia del professionista. Ove mai si ammettesse una qualsiasi incidenza probatoria con riferimento alla negligenza o all’imprudenza, questa sarebbe operante comunque ad un livello diverso (principio di prova, argomento di prova).

In secondo luogo, non è affatto scontato che la prova fornita dal professionista di essersi attenuto alle linee guida sia di per sé sufficiente a liberarlo dalla responsabilità, non soltanto là dove emergano profili di negligenza o di imprudenza, ma anche allorquando sia dimostrata ex adverso la non adeguatezza o la vetustà della linea o della pratica prescelta oppure il suo mancato riconoscimento formale oppure ancora qualora resti ignota la causa che ha prodotto il danno (circostanza questa, sulla quale occorrerà procedere ad un autonomo accertamento).

In terzo luogo, nelle ipotesi di asserita responsabilità extracontrattuale del medico, si potrebbe dubitare circa l’operatività del criterio della vicinanza o disponibilità della prova al fine di temperare la rigidità degli oneri di allegazione e prova posti a carico del paziente. Infatti, per quanto sia certamente più “prossimo” alle competenze tecniche dell’esercente l’individuazione della corretta linea guida o della buona pratica più confacente, il soggetto danneggiato conserva oggi comunque la possibilità di attingere alle indicazioni ufficiali raccolte e fornite a livello ministeriale grazie al nuovo sistema di accreditamento degli enti a ciò preposti.

È anche vero, peraltro, che il ricorso a tali dati, dovendo avvenire con necessaria cognizione di causa, necessita dell’ausilio di un tecnico, del quale il paziente dovrà munirsi inevitabilmente nel momento in cui decide di avanzare la pretesa risarcitoria nei confronti del professionista. A questo proposito, va ribadito il peso che la relazione peritale, già espletata in sede di tentativo di conciliazione ex art. 696 bis cpc e presumibilmente assunta in giudizio, è destinata ad esercitare, trattandosi quasi sempre di accertare questioni di carattere altamente tecnico. Almeno sotto questo profilo, ne dovrebbe discendere una riduzione della forbice tra giudizi di responsabilità contrattuale e giudizi di responsabilità extracontrattuale quanto agli oneri probatori posti a carico del paziente.