Cura Plama e Covid 19
Somministrando il plasma dei guariti nei pazienti affetti da Covid-19, la carica virale e i sintomi si riducono in pochi giorni. Prosegue la sperimentazione in quattro ospedali della Lombardia
Dal plasma dei guariti una possibile cura per Covid-19
Al momento, non ci sono terapie efficaci per il Covid-19, hanno messo nero su bianco quattro ricercatori dell'Università del Texas in una revisione di studi pubblicata sul Journal of the American Medical Association. Alcuni dei farmaci impiegati per curare la malattia provocata dal Sars CoV-2 stanno dando risultati incoraggianti. Detto ciò, si tratta di cure sperimentali, che potranno essere eventualmente validate soltanto dopo aver registrato gli esiti degli studi clinici in corso. Tra queste, ce n'è una che sta calamitando l'attenzione degli specialisti. Prevede l'uso del plasma dei convalescenti da Covid-19 che, se infuso in persone alle prese con la malattia, determinerebbe un rapido miglioramento delle loro condizioni. Questo è quanto si evince dalle prime settimane di sperimentazione in corso in quattro ospedali della Lombardia: il Policlinico San Matteo di Pavia e i presidi Carlo Poma di Mantova, Maggiore di Lodi e Asst di Cremona.
Come funziona la cura con il plasma
Non è un caso che - su input di Cesare Perotti, il direttore del servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale della struttura di Pavia - il primo test di questo tipo sia partito da una delle aree più colpite dal coronavirus, alla fine di febbraio. Considerando il rapido aumento dei contagi determinato da Sars-CoV-2, l'aggravamento improvviso delle condizioni di alcuni pazienti e l'assenza di trattamenti specifici efficaci, i medici lombardi hanno deciso di «guardare al futuro riscoprendo il passato», per dirla con Massimo Franchini, a capo della struttura di medicina trasfusionale dell'ospedale Carlo Poma di Mantova. E cioè: prelevare il plasma dei pazienti guariti per inocularlo in coloro che sono alle prese con il Covid-19. Una considerazione nata ricordando quanto già fatto in altri Paesi in occasione dell'epidemie di Sars, Mers, H1N1 ed Ebola, oltre che in Cina all'inizio dell'anno. E tenendo a mente quanto ribadito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità: «L'utilizzo della plasmaterapia è ammesso quando ci si ritrova di fronte a malattie gravi per le quali non esistono trattamenti farmacologici efficaci».
IL PLASMA IN ATTESA DEL VACCINO?
I risultati registrati tra i primi dei 49 pazienti coinvolti nello studio sono incoraggianti. Il plasma dei pazienti convalescenti - definito iperimmune - starebbe funzionando come auspicato. «Il plasma delle persone guarite dall'infezione contiene gli anticorpi specifici contro il virus Sars-CoV-2 - dichiara Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro Nazionale Sangue -. Questi, una volta infusi nei pazienti sintomatici, determinano una rapida risposta terapeutica». A pensarci bene, dunque, un gesto di grande solidarietà compiuto da chi ha vinto la battaglia può salvare la vita a chi è invece nel bel mezzo del conflitto. Secondo Giuseppe De Donno, primario del reparto di pneumologia dell'ospedale Carlo Poma di Mantova, «il plasma, in questo momento, è l’unico farmaco specifico contro Covid-19». Nella pratica, nell'attesa di un vaccino che non potrà arrivare prima di un anno, si fa di necessità virtù. «Inoculando gli anticorpi dei guariti nelle persone malate, è come se somministrassimo l'analogo di un vaccino», aggiunge lo specialista.
CHI SOTTOPORRE AL TRATTAMENTO
Lo studio in corso prevede che a beneficiare del trattamento - nei prossimi giorni sarà esteso anche agli ospedali del Veneto, dell'Umbria e della Toscana - siano i pazienti in cui la malattia ha intrapreso il decorso più grave. Ovvero: coloro che hanno già sviluppato la sindrome da distress respiratorio acuto, la manifestazione più grave della polmonite interstiziale determinata dal coronavirus. E che, di conseguenza, richiedono un supporto meccanico per respirare. «Quello che stiamo vedendo è che, una volta infuso il plasma, si registra una riduzione della carica virale e un miglioramento dei sintomi nell'arco di poche ore», aggiunge Franchini. Come accaduto a oltre 20 pazienti, tra cui Pamela Vincenzi: la prima donna incinta affetta da Covid-19 e trattata con il plasma dei guariti. Il protocollo prevede la somministrazione di 250 millilitri di plasma per un massimo di tre volte in una settimana ai pazienti ricoverati in terapia intensiva (da non più di dieci giorni). «Ma vorremmo capire anche se esistono dei margini per estendere il trattamento ai pazienti in pericolo di vita, a coloro che sono ricoverati nei reparti di malattie infettive e pneumologia e al personale sanitario, come possibile opportunità per ridurre il rischio di contagio», afferma fiducioso Franchini.
Ricapitoliamo Come funziona la terapia sul plasma
Usare il plasma del sangue di chi è guarito per curare chi è ancora ammalato. È questo il principio che guida la sperimentazione in corso negli ospedali di Pavia e Mantova, dove si lotta dal primo giorno contro l’epidemia di coronavirus.
Il plasma, ovvero la parte più ‘liquida’ del nostro sangue, è composto da acqua, proteine, nutrienti, ormoni, ma è privo di cellule. Soprattutto, però, contiene una quota di anticorpi che si sono formati dopo la battaglia vinta contro il virus: Si chiamano anticorpi neutralizzanti, si legano all’agente patogeno e lo marcano.
Il concetto di plasma convalescente è in pista da 30 anni. Inoltre, nelle altre due epidemie da coronavirus, ovvero la Sars del 2002 e la Mers del 2012 è stato adoperato con successo; infine l’Organizzazione mondiale della sanità ne ammette l’utilizzo nel caso di malattie gravi per cui non ci sia un trattamento farmacologico efficace.
Ad aggiungere sicurezza alla sperimentazione che è stata avviata in Lombardia ci sono i risultati pubblicati dai medici cinesi, che per primi hanno avuto a che fare con il Covid 19, “sul Journal of American Medical Association (Jama) e che si sono rivelati positivi.
E’ per questo che l’equipe del policlinico San Matteo di Pavia, guidata dal professor Cesare Perotti ha deciso di avviare la sperimentazione, e l’azienda sanitaria di Mantova si è aggiunta.
Ma in cosa consiste l’esperimento?
Si preleva il plasma da pazienti che hanno superato la fase critica e sono tornati sani e lo si trasfonde in persone ancora ammalate.“
Il momento giusto per immetterlo è ad uno stadio preciso della malattia: si hanno già delle manifestazioni gravi, come la scarsa ossigenazione, si è sottoposti a ventilazione assistita con casco C-pap, ma non si è ancora intubati.
La scelta del momento per iniziare la terapia non è secondaria “perché abbiamo imparato che con questa malattia ci si può aggravare anche nel giro di poche ore. E che questo processo a un certo punto diventa irreversibile”. Quando la cura funziona, invece, si osserva una “regressione”: “Sembra quasi che riusciamo a tenere il paziente per mano e a tirarlo fuori dal baratro”, constata con emozione il dottor Franchini.
Al momento la sperimentazione è iniziata a Mantova su 20 pazienti, si è partiti con 7 ma se il protocollo funzionerà si potrà ampliare la platea.
Se inizialmente il plasma veniva da Pavia, capofila del progetto, ora Mantova ha i suoi donatori. In particolare si è attinto dai nominativi dell’Avis, ovvero persone che donavano il sangue già prima, poi sono state contagiate dal virus, ma sono guarite. In tutto, ad ora, sono 30 ad aver dato la loro disponibilità, ma nella provincia il serbatoio potrebbe essere ampio.
La trasfusione, comunque, ha sempre una minima soglia di pericolo: Si tratta sempre di un prodotto biologico di origine umana, che va prelevato in sicurezza e testato.
Nel caso in cui i primi risultati dovessero essere confermati, la richiesta di donatori di plasma iperimmune è destinata a crescere nelle prossime settimane. Al momento, negli ospedali lombardi, si stanno selezionando gli uomini maggiorenni con alle spalle una diagnosi di Covid-19 (con tampone), guariti (con doppio tampone negativo), asintomatici (da almeno due settimane) e idonei alla donazione di sangue. Una volta individuati e registratane la disponibilità, il personale sanitario li sottopone a un nuovo tampone e al test sierologico: passaggi necessari per avere la conferma che l'infezione è ormai alle spalle. Più serrato del solito è anche il meccanismo dei controlli a valle della donazione, che in questo caso prevede la ricerca degli anticorpi diretti contro i virus dell'epatite A ed E e del Parvovirus B-19. Oltre, naturalmente, al dosaggio degli anticorpi neutralizzanti per Sars-CoV-2. L'obbiettivo è quello di reclutare sempre più ex pazienti, per far fronte a un possibile aumento della richiesta (vincolato al consolidamento delle prime evidenze). Le immunoglobluline, con un'efficacia protettiva di 3-4 settimane, potrebbero rappresentare una soluzione provvisoria in attesa dell'esito delle sperimentazioni degli altri farmaci e di un vaccino. Al momento, in nessun centro trasfusionale italiano vi è la possibilità per tutti gli altri donatori (non ammalatisi di Covid-19) di essere sottoposti a uno screening finalizzato a candidarsi come donatori.